Mons. Filippo Bacciu, araldo del Signore.

Filippo Bacciu nasce a Buddusò il 24 Febbraio 1838, ordinato Sacerdote nell’Agosto 1863, nominato Canonico Parroco della Cattedrale di Ozieri nel 1875, preconizzato Vescovo di Bisarcio il 1896; morto il 13 Marzo 1914. Ha fondato l’Ordine di San Filippo Neri di Ozieri.

Conosciamo la vita del vescovo Bacciu dal racconto appassionato fattoci da Mons. Giovanbattista De Melas, nel libro L’operaio Evangelico. Mons. Filippo Bacciu, vescovo di Ozieri.

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Giovanni Battista Demelas

Ripercorriamo la vita del presule ozierese nei momenti salienti.

Laureatosi all’Università di Sassari in Sacra Teologia il 20 luglio 1863, Filippo un mese dopo salì all’altare fra l’esultanza del popolo. II Vicario Capitolare della sede di Ozieri, rimasta vacante per 25 anni, dalla morte del cappuccino Mons. Carchero di Guglieri (31-3.-1847) fino all’assunzione alla sede di Mons. Gorrias di Domusnovas Ganales (18-2.-1872), ebbe modo di conoscere il Teologo Bacciu, e tra i molti segni della sua stima e benevolenza gli diede pure la facoltà d’insegnamento e l’ufficio tanto faticoso quanto delicato di confessore dei seminaristi. Dal 1866 al 1875 fu professore di belle lettere nel Ginnasio Comunale di Ozieri e direttore spirituale degli studenti di quell’istituto.

Nel 1875, in seguito a concorso, venne nominato Canonico Parroco della Cattedrale di Ozieri.

A Terranova Pausania, l’odierna Olbia, appartenente alla diocesi di Tempio-Ampurias, prese parte attiva alla conciliazione amichevole di una terribile controversia sorta tra due famiglie. All’incontro organizzato per sancire la pace tra le due famiglie erano presenti, oltre un numero straordinario di persone, il canonico Bacciu e tre vescovi sardi: Mons. Diego Marongiu presule di Sassari, Mons. Serafino Corrias vescovo di Ozieri, e Mons. Filippo Campus vescovo di Tempio, tutti e tre preconizzati da Pio IX nel concistoro del 34 novembre 1871.

Fu veramente un fatto meraviglioso il vedere uniti insieme, in una sola mente ed in un solo cuore, uomini già divisi tra loro da, odi inveterati, da intestine discordie e da furibonde inimicizie, pronte a scoppiare in vendette. Oh quanti apostoli di pace della sua tempra occorrerebbero per ristabilire e consolidare nel mondo la vera pace, dopo l’attuale tragico e decisivo sconvolgimento.

L’Operaio Evangelico, p. 7.

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Mons. Bacciu

Quando i raggi del sole dai riflessi d’oro mandavano il primo bacio alle marcate cuspidi dei monti Sa Pianedda e Ololviga, e incominciavano a illuminare l’immensa distesa delle campagne popolate di roveri, elci, sugherie e di nuraghi appollaiati come nidi d’ aquile, sulle ruppi scoscese, la notizia gli pervenne per telegrafo a Buddusņ, ove si trovava in seno alla famiglia, per un breve periodo di riposo. I compaesani improvvisarono calorose e sentite dimostrazioni di affetto.

L’Operaio Evangelico, p. 8.

Nella Cattedrale, parata a festa e gremita di fedeli, ricevette la consacrazione episcopale da Mons Antonio Maria Contini, Vescovo di Ampurias e Tempio, il giorno 4-4-1897. Presero parte alla funzione, come consacranti, per dispensa della Santa Sede, i canonici Pietro Maria Campus, Arciprete del Capitolo e Giovanni Maria Virdis, canonico seniore, che poi succedette al Campus nella dignità dell’Arcipretura.

Il neo eletto scelse per stemma: due angeli svolazzanti in atto di baciarsi con fraternitą d’intenti, e impugnanti con le destre, uno l’emblema della giustizia: la spada, l’altro quello della pace: il ramoscello d’olivo, con il moto: Justitia et pax osculata sunt (la giustizia e la pace si sono baciate). Psalmus 84 II

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Le visite pastorali

Qua di seguito riporto l’elenco che il Demelas fa dei paese della diocesi di Ozieri visitati dal Vescovo, unendo una cronaca sommaria della visita. Sarebbe edificante poter raccogliere dai registri parrocchiali le relazioni delle Visite Apostoliche, per poterne fare un volume dal quale trarne numerose notizie storiche.

Ad Alà dei Sardi il suo arrivo segnò un indimenticabile avvenimento Il parroco, parato a festa, il Sindaco con la sciarpa, il Comandante la stazione dei Reali Carabinieri in alta uniforme, i confratelli col baldacchino, le società religiose, maschili e femminili, con vessilli e stendardi, le scolaresche con i rispettivi insegnanti e una fiumana di popolo tumultuante, lo ricevette con entusiastiche grida di evviva. Ovunque passasse Si ripeteva la stessa scena suggestiva, indimenticabile

Ad Ardara si vuotò il paese per andargli incontro. Venne accolto da una vibrante e filiale dimostrazione di devoto omaggio. Nel paese dovettero intervenire i convisitatori difenderlo dall’indiscreta devozione della folla che, con tensione nervosa, allungava entrambe le braccia baciargli l’anello.

A Bantine lo ricevettero in ginocchio, ne sollecitavano la benedizione e osannavano al loro pastore: i suoi dipendenti.

A Benetutti fu accolto da una fiumana di fedeli che facevano alta sentire la giuliva espressione dei cuori.

A Berchidda un’inondazione di gente, che sbucava da ogni via, non cessava di tributar lodi al venerato Pastore.

A Bono tanto era l’afflusso dei fedeli che si stentò a poter penetrare in chiesa.

A Bottidda venne ricevuto con grandissima accoglienza e con straordinaria dimostrazione di affetto.

Buddusò, sua patria, era logico gli riserbasse accoglienze ancor più grandiose. Anche i fanciulli, agitanti ramoscelli dalle foglie verdi, sprigionavano dai teneri loro cuori, sentimenti di amore e di venerazione, con festevoli grida di osanna.

A Bultei era una meraviglia veder il concorso e la devozione di quella gente.

A Burgos gli fecero un’accoglienza delle più festose.

A Esporlatu anche i vecchi vollero andare in processione per riceverlo all’estremità del paese, ove si degnò di rivolgere ai presenti la sua preziosa parola.

Ad Illorai le accoglienze furono più imponenti.

Ad Ittireddu le dimostrazioni di stima e di venerazione furono calorose.

A Monti, tra l’ondeggiare della folla ci volle del bello e del buono per liberarlo dalle strette dei fedeli, desiderosi di baciargli l’anello.

A Nughedu una fiumana di uomini e donne, di vecchi e bambini, ne implorava la pastorale benedizione.

A Nule l’affluenza divenne tale che non può facilmente descriversi: Tutti vollero, con nobile gara, tributargli una testimonianza del loro amore imperituro.

Ad Oschiri, oltre alla moltitudine dei soci, appartenenti alle Società religiose, maschili e femminili, che andarono a riceverlo a circa un chilometro dal paese, una grande quantità di bambini gli erano di impedimento al procedere innanzi, poiché tutti lo volevano vedere, toccare e ricevere carezze e benedizioni.

Ad Ossida venne accolto con vivissima commozione, con entusiastica gratitudine e con manifestazioni di filiale omaggio. Sebbene a cavallo non poteva procedere innanzi che a grande stento, poiché gli uomini prendevano la briglia della bestia impaziente e la fermavano.

Ed ad Ozieri? Per gli Ozieresi, Mons. Bacciu era tutto: Vescovo, padre, fratello, consigliere, guida, benefattore, nunzio di pace ecc. Ozieri era la sua patria di adozione, vi aveva dimorato più che nel paese di origine, e gli ozieresi lo veneravano con un amore che non aveva limiti.

A Pattada il concorso fu si notevole che non ebbe precedenti. Dovettero essere adibiti alcuni uomini a guardia della porta della canonica affinché la calca del popolo non irrompesse dentro.

L’Operaio Evangelico, p. 9.

Tramonto Luminoso

Inizia a questo punto il racconto degli ultimi giorni di vita di Filippo Bacciu. Un racconto davvero commovente, che raccoglie tutta la pietà popolare e ne incanala l’amore e la devozione verso il doloroso momento. Non commenterò la cronaca del Demelas.

Mos. Bacciu, durante la sua esistenza, ripeteva a sé stesso: ricordati che devi morire e per richiamare alla mente questa grande verità, aveva sempre davanti agli occhi, sulla scrivania, un teschio umano modellato sul gesso. La morte quindi lo colse d’improvviso ma non impreparato.

La mattina del giorno 8 maggio 1914, seconda domenica di quaresima, Mons. Bacciu, aveva assistito alla Messa solenne e ascoltata la predica quaresima­lista.

Il celebrante, vestito degli abiti di penitenza, con voce chiara lesse l’introito: «Ricordati, o Signore, delle tue misericordie che sono eterne, affinché i nostri nemici non abbiano mai a dominarci: liberaci, o Dio d’Israele, da tutte le nostre afflizioni».

Il suddiacono intona: «Vi preghiamo e scongiuriamo nel Signore Gesù, che, avendo da noi appreso in qual modo dobbiate diportarvi per piacere a Dio, così vi diportiate, affinché progrediate sempre più».

Il diacono canta: «In quel tempo, Gesù presi con se Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, li condusse sopra un alto monte, in disparte. E si trasfigurò in loro presenza, e il suo viso risplendé come il sole, e le sue vesti divennero bianche come la neve».

I cantori intonavano: «Le tribolazioni del mio cuore si sono moltiplicate: deh! o Signore, liberami dai miei affanni. Beati quelli che osservano la legge ed in ogni tempo praticano la giustizia. Signore, visitaci con la tua salvezza».

Il predicatore declama: «Che importa all’uomo se guadagna tutto il mondo e perde l’anima?».

Tutta la liturgia del giorno aveva tonalità profetica.

Il Vescovo, ritto sulla sua persona, alzò gli occhi in alto, distese le braccia con ampio gesto, come se volesse stringere in paterno affetto, tutti i diocesani presenti e lontani, e impartì l’ultima solenne benedizione con una tenerezza vasta come la Provvidenza.

Quando il degno presule, ancor profumato d’incenso, uscì dalla cattedrale, una luce dolcissima lo baciò in fronte e la brezza che passava con la tenuità di un sospiro, sembrava che gli dicesse: addio!

Le prime rondini, senza garriti, svolazzavano in alto, su per il cielo dalle iridescenze lievissime, opaline, evanescenti in un azzurro chiaro. Dai casolari si alzava un leggero pennacchio chiaro-oscuro come soffice cirro di nuvolette, i tocchi delle campane si perdevano lontano come una nenia materna. I fanciulletti gli si facevano incontro, aggruppatisi come pulcini sotto le ali protettrici della chioccia.

In episcopio, dopo un pranzo, come al solito frugale, consumato con la solita gioiosa armonia in uno coi suoi prediletti, si ritirò in camera, per attendere, sereno, ai doveri del suo ministero.

Al pendolo scoccarono le 13. Quei flebili rintocchi sembravano che volessero annunziare lo strazio dell’agonia di una persona cara.

Mons.Vescovo si senti venir meno, le forze si affievolirono lentamente, sentì un fremito come scosso da mano invisibile e pervaso da tremiti e rannuvolamenti, si accasciò prima sulla scrivania poi cadde pesantemente sul duro pavimento. Una paralisi cardiaca lo sorprese d’improvviso, così, come la belva alla preda.

Nelle sue membra percosse serpeggiava la morte.

Dai suoi famigliari ebbe le prime amorevoli cure. Lo raccolsero trepidanti di spavento e tra lacrime e singulti, lo portarono sulle braccia in camera e lo adagiarono sul letto.

Qualche lieve insensibile miglioramento non lasciava adito a speranze, e le ricadute e i battiti irregolari del cuore accrescevano le angustie.

Il medico, chiamato d’urgenza, constatò subito gravità del pericolo.

Il paziente immobile come un tronco abbattuto dal fulmine, però con piena facoltà di mente, invocò il suo vecchio maestro di Spirito al quale chiese la carità di «raccogliere la sua ultima confessione».

Con devozione, fede e sospiri di amore e con affettuosa aspirazione, si preparò a ricevere la visita del Dio del Tabernacolo che venne a portargli la caparra dell’eterna salvezza. Dai suoi occhi sgorgarono lacrime. Però nessuna parola. L’amore non parla.

Col Diletto ogni discorso avviene nell’interno dell’anima. Con le mani incrociate sul petto, egli ricevette il Santo Viatico. Stette un po’ in silenzio poi con voce debole ma chiara pronunziò: o Gesù, Voi siete tutto mio; ancora un poco, ed io sarò tutto vostro, per sempre! All’Arcivescovo Mons. Cleto Cassarti accorso da Sassari, il Vescovo morente rivolse parole di ringraziamento per essere venuto «a dare l’ultimo saluto al suo confratello sull’orlo della tomba» E rispose con piena riconoscenza alle belle e sante esortazioni dell’Arcivescovo, e dopo averne ricevuta Ia benedizione, con affetto paterno, alzò la sua mano stanca a benedire tutti i canonici, sacerdoti e famigliari presenti alla commoventissima scena.

All’Arciprete Canonico Virdis che gli domandò, lacrimante e premuroso, del suo stato di salute disse: «siamo tuttora sulla terra». In queste parole echeggiava la nota evidente della nostalgia anelante alla felicità eterna.

Il respiro intanto si faceva sempre più affannoso e una sete atroce – la sete della morte – lo tormentava: assaporava stilla a stilla l’agonia.

Seguì, mentre era ancora nella più perfetta lucidità di mente e di giudizio, l’Estrema Unzione.

Per procurargli di qualche giorno la vita, gli furono praticati, secondo i metodi del tempo, alcuni salassi, ai quali il Vescovo si sottomise, benché la cosa gli ripugnasse. Tutto venne accolto da lui con rassegnazione e pazienza.

Durante giorni della malattia mai uscì dal suo labbro una parola di lamento o di sconforto. In perfetta conformità ai divini voleri, guardò in faccia la morte con occhio sereno.

Come un padre sul letto delle sue agonie ama circondarsi dei suoi figli per rivolger loro l’ultima parola e per dare ad essi l’estrema benedizione, così il maestro e l’educatore acconsentì, ben volentieri, a ricevere i sacerdoti che gli erano discepoli e figli spirituali.

Parlare non poteva, ma il cuore si spalancava ancora per accoglierli tutti dentro, e quella serenità che gli si leggeva negli occhi spenti, era la sua ultima predica.

Era sulla soglia dell’eternità. Ripeté più volte «Gesù mio misericordia», volle baciare ancora il crocefisso e dopo di aver implorata la grazia della perseveranza finale, mandò un sospiro e la sua anima spiccò il volo verso il trono di Dio, mentre il sole mandava l’estremo saluto nel crepuscolo d’oro.

Nella camera alto regnava il silenzio: gli astanti versavano lacrime di cordoglio, era un pianto tacito, benefico: quel pianto invece di soffocare libera, invece di acuire la pena la stempera e la placa.

L’operaio evangelico doveva cogliere il frutto delle fatiche, sostenute nella vigna del Signore.

Le prime ore della sera calavano sopra Ozieri. Più nessuna luce nel cielo, che acquistava quella tinta grigia piena di malinconia, e che stendendosi sulla città, sulla cerchia dei monti, toglieva a tutto ogni rilievo, e in una bruna uniformità di aspetto fondeva tutte le sfumature del paesaggio.

La morte del buon Vescovo, caduto sulla breccia con le armi in pugno come una sentinella vigile, fin dalle prime ore del mattino, prese un carattere di un avvenimento pubblico. S’erano chiuse le botteghe, sospeso il commercio e tutti si erano portati all’episcopio che fu invaso in un istante e al di fuori la folla manifestava clamorosamente la sua impazienza di entrarvi. Tutta la popolazione poté soddisfare la sua devozione ed apportare il suo tributo di pietà alla memoria dell’estinto.

Il ferale annunzio, diffusosi con la velocità della folgore anche per tutta la Diocesi, era stato portato da tanti beneficati e suscitò dovunque un rimpianto generale e profondo. Fu un accorrere continuo di gente di ogni ceto che manifestavano coi segni del dolore più vivo, quelli della venerazione. Affluivano poveri, ricchi, semplici popolani, distinte persone, sacerdoti, fanciulli, a fine di rimirar per l’ultima volta la salma, rivestita degli abiti pontificali, esposta nella camera ardente, parata a lutto e adorna di luci.

Il popolo si prostrava ai piedi del catafalco, e implorava la protezione di colui del quale si spesso ne aveva sperimentata la bontà ed ammirata la virtù, poi nei trasporti di dolore e di fede, gli baciavano le mani, i piedi, l’abito, il crocefisso che teneva fra le mani, sul petto.

La sua fisionomia aveva un non so che di amabile soavità.

L’Operaio Evangelico, p. 20.

Mons. Becciu riposa ora nella parrocchia di Santa Anastasia di Buddusò.

Chiesa della Beata Vergine Immacolata – Oschiri

 

 

La parrocchiale di Oschiri, dedicata alla Madonna, sotto il titolo di Beata Vergine Immacolata, venne costruita nei primi anni del XX secolo, terminata nel 1907, sotto il governo del vescovo di Ozieri Filippo Bacciu e consacrata otto anni dopo, l’undici dicembre 1915, dal vescovo Carmelo Cesarano, essendo parroco don Gavino Melas. Come recita l’epigrafe di commemorazione, l’altare venne dedicato, oltre che alla Santa Vergine, anche a s. Giuseppe e a s. Demetrio vescovo e martire. Queste notizie sono tratte da un’iscrizione latina che descriveremo più sotto.

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La facciata, di semplice impostazione, si presenta tripartita da paraste in trachite, con la parte centrale, più ampia, che richiama ancora la tripartizione, con tre oculi, tre fornici e tre portali. Si affaccia sulla piazza in granito, circondata teatralmente da palme e si pone come sfondo a chi percorre la via principale del paese da ovest verso est. Due torri svettano ai lati della facciata, una con l’orologio e l’altra col campanile.

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Alla chiesa si accede attraverso il nartece e un’anticamera sulla destra, che ospita un’acquasantiera marmorea di particolare fattura, nel cui basamento sono raffigurati i simboli degli Evangelisti, il Leone alato di San Marco, l’Aquila di San Giovanni, l’Uomo alato di San Matteo e il Bue alato di San Luca: questo pezzo, esclusa la vasca dell’acqua, si dice fosse parte integrante del vecchio pulpito appartenente alla chiesa precedente quella attuale, la quale fu demolita perché fatiscente, come racconta il poeta satirico Domenico Antonio Migheli nella sua “Briga ‘e sos Santos”; è presente anche un gruppo statuario raffigurante Gesù che viene aiutato da San Francesco d’Assisi a scendere dalla Croce.

Entrando in chiesa, sulla prima colonna della navata destra si trova una lapide, scritta in latino, la quale recita:

A Dio, il più buono, il più grande e alla Beata Maria Vergine Immacolata questo tempio, con la spesa della Pubblica Amministrazione e le offerte dei fedeli, il reverendissimo signore Filippo Bacciu vescovo questo tempio ed il suolo eressero il giorno 7 settembre dell’anno 1907 e benedissero. Il reverendissimo signore Carmelo Cesarano C. S. S. R., vescovo di Ozieri, il giorno 11 dicembre dell’anno 1915, con tre altari dedicati alla Beata Maria Vergine Immacolata, a San Giuseppe Patrono e a San Demetrio vescovo e martire, con rito solenne consacravano e la affidavano alla cura e sollecitudine del signor teologo dottor Gavino Melas parroco.

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Della lapide stupisce l’assenza di menzione per la santa patrona di Oschiri, Santa Lucia. La martire siracusana viene festeggiata a Oschiri da più di 130 anni, assieme al vescovo martire san Demetrio, anche se non mi sono noti documenti che facciano risalire ufficialmente la celebrazione di s. Lucia alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento. Sarà doveroso a questo punto chiarire il fatto, ritrovando le tracce più antiche dei festeggiamenti in onore di s. Lucia, anche per fugare l’ipotesi che il culto sia stato introdotto da qualche parroco nel corso degli anni, e che esso non abbia nessun’attinenza con la storia locale; ad accrescere ulteriormente le mie riserve concorre il fatto che nel territorio non sono presenti chiese intitolate alla martire, a differenza di s. Demetrio, che è guarda caso, la chiesa più antica di Oschiri (1168). Questo comunque non sminuirebbe l’affetto e la devozione che oggi gli oschiresi hanno sviluppato nei confronti di s. Lucia, ma per amore della Storia sarebbe giusto dissipare ogni ombra.

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Nelle navate laterali si trovano quattro altari raffrontati, tre con edicola e sacello anonimi che oggi ospitano la statua del Sacro Cuore (restaurata in maniera un po’ azzardata), una statua contemporanea del Gesù di suor Faustina Kowalska e la statua di san Giovanni Battista. Il quarto altare invece ha la particolarità di non avere l’edicola, ma una scultura ad alto rilievo raffigurante la gloria di san Giuseppe col Bambino in braccio: la figura di Giuseppe è monumentale, ed è inserito in una teoria di puttini che si affacciano dalle vaporose nuvole, e indica un angelo che sorregge la Basilica di San Pietro. La dedicazione dell’altare a san Giuseppe è ribadita dalle lettere “S J” e dagli strumenti propri del falegname, inseriti nel pluteo frontale.

ffghrgjrgn.jpgNell’angolo di nord-ovest si trova il fonte battesimale. Questo è l’unico pezzo per cui è certa la provenienza dalla chiesa esistente prima dell’attuale.

Infatti alla base della fonte si trova la scritta latina

TEOL IOHANNE MARIA BUA ECCLESIAE ET ANIMARUM RECTORE ANNO Æ C MDCCCXXIII

ovvero: “Teologo Giovanni Maria Bua, rettore della chiesa e delle anime [di Oschiri], anno dell’era comune 1823”.

Recentemente è stato riposizionato alla prima colonna di sinistra dal presbiterio il pulpito, di fattura comune e forse non originale in tutte le sue parti.

L’ampio presbiterio è delimitato dal recinto sacro, in marmo grigio, e vi si accede tramite tre scalini del medesimo materiale. La mensa attuale è stata posizionata nel settembre 2016, ed è realizzata da artigiani locali, con l’impiego di un paliotto inserito nel fronte, probabilmente ottocentesco, proveniente magari dall’arredo della parrocchiale demolita. Immaginesdfsdfsdfsdfs.jpgIl pulpito invece è di Immagine.jpgnotevole interesse, almeno per la scultura ad altorilievo che lo adorna: la scena rappresenta Cristo che insegna nella Sinagoga, ed è dell’artista piemontese Giuseppe Sartorio. Sartorio ha lavorato molto in Sardegna, realizzando lavori a Sassari come il monumento a Vittorio Emanuele II di Savoia in Piazza d’Italia o il busto di Umberto I al Palazzo Regio di Cagliari, come anche molti lavori al Cimitero Monumentale di Iglesias. L’artista morì in circostanze sospette nella notte tra il 19 e il 20 settembre del 1922, quando il piroscafo che da Olbia lo portava a Civitavecchia affondò. La morte presunta verrà dichiarata solo vent’anni dopo.

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L’altar maggiore è armoniosamente tripartito, con l’edicola centrale, più alta, che ospita la statua della Vergine Immacolata che pesta la testa del Nemico, e effonde i suoi raggi protettivi verso il basso, dove si trova il tabernacolo e, originariamente, si trovava il Crocefisso. Le due edicolette laterali sono impreziosite da due lunette dipinte con scene della Deposizione di Cristo a nord e la Nascita di Cristo a sud, entrambi di un tal G. Galeazzo, al momento sconosciuto. Su una parasta del lato sud del presbiterio si trova una lapide commemorativa del 1908 che rende omaggio a fra Bonaventura da Calangianus, il quale volle donare agli oschiresi l’altar maggiore, “monumento marmoreo della sua liberalità”.

Il coro è adibito a ripostiglio, sebbene in origine poteva sicuramente ospitare l’organo. Le due sacrestie sono prive di arredi originari, e ospitano quella a sud l’ufficio del parroco con i paramenti sacri mentre quella a nord funge da ripostiglio e da bagno.

yjdythjstyjsdtyjny.jpgSulla controfacciata è stata recentemente appesa l’opera pittorica dell’artista locale Costantino Fenu. Sono tredici quadri, ai quali ne verranno aggiunti altri, uniti a formare un grande quadro, che illustrano tutti i santi ai quali sono state dedicate le chiese oschiresi, campestri e cittadine.

 

Giovanni Maria Bua: un tratto d’unione tra Oschiri, Oristano e Nùoro. Brevi cenni.

Lo stemma episcopale del mons. G. M. Bua e lo stemma della Città di Nùoro

«D’azzurro alla campagna di verde con lo sfondo di una catena di montagne di tre cime; sulla campagna a destra un bue, pure al naturale passante; sul tutto un sole raggiante d’oro. Ornamenti esteriori da città.»

Questa è la descrizione araldica dello stemma della città di Nùoro. E cosa ha a che vedere la città di Nùoro con Oschiri?

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Giovanni Maria Bua

Nel 1828 papa Leone XII nomina Arcivescovo di Oristano il parroco di Oschiri Don Giovanni Maria Bua, e gli assegna anche l’amministrazione apostolica della diocesi di Nùoro-Galtellì, la quale era vacante a seguito dell’interdizione dal governo diocesano di Antonio M. Casabianca, avvenuta lo stesso anno. Il nuovo monsignore reggerà il governo della diocesi barbaricina fino alla sua morte, nel 1840. In questo lasso di tempo l’Arcivescovo intraprenderà una grande opera di riqualificazione e della città di Nuoro e di tutto il territorio diocesano. Nella sola città capoluogo costruirà il seminario Tridentino, inaugurato poi nel 1833, il quale poi fu di fatto la prima scuola pubblica nuorese; nel  1836 diede incarico per la costruzione della nuova cattedrale, terminata 13 anni dopo la morte del presule oschirese e darà nuovo impulso all’agricoltura con l’introduzione della coltivazione della patata. I forti legami di stima che ebbe ad intrattenere con la casa reale a Torino gli diedero gli strumenti utili per far elevare il comune di Nùoro al rango di città, a patto comunque che il carico delle imposte rimanesse invariato: oltre al centro barbaricino, nella stessa patente regia venne elevata al rango di città Ozieri e Tempio Pausania.

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Santa Maria della Neve (1853), Cattedrale di Nùoro
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Seminario Tridentino (1833), Nuoro

I nuoresi, per riconoscenza verso monsignor Bua, decisero allora di adottare come stemma cittadino il suo stemma episcopale: il bue, i monti e il sole raggiante.

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Patente regia di elevazione al rango di città dei comuni di Tempio, Ozieri e Nùoro, datata 10 settembre 1836

Giovanni Maria Bua, nato a Oschiri il 25 luglio 1773, muore a Nùoro il 24 ottobre 1840, a 67 anni. Le sue spoglie furono dapprima inumate dai nuoresi nella chiesa della Purissima, ma le forti proteste degli oristanesi fece in modo che, dopo il diretto intervento della Santa Sede, il presule fosse traslato nella cattedrale della diocesi arborense.

Ritengo opportuno che la figura di Giovanni Maria Bua, parroco di Oschiri per oltre trent’anni, e poi Arcivescovo di Oristano, vada assolutamente approfondita e divulgata, distinguendo cronologicamente le due fasi della vita del sacerdote, prima parroco e poi presule, ma tenendole strettamente collegate, in un’ottica di riappropriazione della memoria che riguarda tutti.

Diocesi di Castro. Ipotesi per l’anonimo destinatario della missiva di Innocenzo IV

La raccolta di fonti edite per la storia delle istituzioni ecclesiastiche medievali della Sardegna, sono fondamentalmente due: il Codice ecclesiastico per le relazioni fra la Santa Sede e la Sardegna, edizione curata da Dionigi  Scano, del 1940 (Arti Grafiche, Cagliari) e il  Codice diplomatico della Sardegna, edizione curata da Pasquale Tola e riedita dalla Carlo Delfino Editore nel 1984.

Da esse però spesso si ricavano notizie discordanti, o addirittura contraddittorie, segno evidente che necessiterebbero di una revisione profonda, con la verifica di ogni singolo documento riportato.

Una terza fonte fondamentale sono le Monumenta Germaniae Historica (MGH), una serie completa di fonti attentamente preparate e pubblicate per lo studio dei popoli germanici e, più ampiamente, dell’Europa; comprendono un periodo di tempo che va dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente al XVI secolo circa. Queste fonti non si riferiscono tanto alla storia della Germania (che tra il VI e il XVI secolo ancora non esisteva come nazione), quanto piuttosto ai popoli germanici e ai regni romano-barbarici sorti alla caduta dell’Impero romano d’Occidente.

Ebbene, spesso capita che a un incrocio di dati, testi e citazioni, le discordanze tra le MGH e le due fonti precedentemente citate (CRSsS, CDS) siano purtroppo riscontrabili. In un’epoca lontana com’è il medioevo, poter fare storia con la certezza delle fonti è di capitale importanza, specie poi se ci si trova davanti a istituzioni, quali quelle come la diocesi di Castro, la cui storia ancora è molto nebulosa, per la quale sussistono lacune severe che tentiamo, passo dopo passo, di colmare.

Fatta questa breve premessa, riporto un caso a prima vista minimale di discordanza tra fonti, ovvero la differenza di un giorno nella datazione tra le MGH e le CRSsS e CDS.

Nell’ottobre 1248 papa Innocenzo IV scrive a un anonimo vescovo di Castro, ordinandogli di provvedere al versamento di 100 lire genovesi a favore del vescovo di Ploaghe, reso oggetto di violenti soprusi da parte degli ufficiali di re Enzo di Sardegna, riferendosi molto verosimilmente a Michele Zanche, vicario dell’Hohenstaufen, che per anni governò il Logudoro con poteri assoluti.

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MGH, Epistolae Selectae, 1248, p. 425. 

Non sappiamo come la questione si risolse, ma la nomina, nel giugno del 1249, di un nuovo Legato Pontificio per la Sardegna, fa sospettare che le condizioni politiche non fossero favorevoli alla Chiesa, la quale delegò al proprio rappresentante nell’Isola facoltà straordinarie, con l’incarico di difendere i religiosi perseguitati dall’Imperatore Federico II di Svevia, e di predicare la crociata contro di lui.

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Il cosiddetto Palazzo del Vescovo, nella cittadella di Castro.

La questione che riguarda da vicino la diocesi di Castro, oltre questi fatti generali, è riferita al destinatario anonimo della lettera di Innocenzo IV, quella di ottobre. Ebbene, sulle MGH la data riportata è il 21 ottobre 1248, mentre sulle altre due fonti viene riportato il 22 ottobre 1248. Il Turtas (1999) pone come data di morte dell’anonimo vescovo proprio il 21 ottobre 1248.

Attorno al 1248 ruotano almeno due vescovi: Torgotorio (ante 1231- post 1237) e Marzocco (ante 1259 – post 1269), con un arco cronologico davvero molto ampio, di massimo venti anni. In questo lasso di tempo il papa si rivolge a un eletto castrense, quindi nel 1248 la sede non è vacante; ciò nonostante la sospetta concomitanza tra la data apposta sulla missiva e la data di morte presunta del presule sussiste. In assenza di notizie ulteriori, è possibile posticipare la fine del regno di Torgotorio fino al 1248, proprio a quel 21 ottobre, ma rimane il fatto che non fu lui a ricevere la missiva; l’anno di insediamento di Marzocco, come già detto, non è noto, ma pare difficile anticiparlo di almeno undici anni dalla prima notizia che, ad oggi, ci è nota, e la sua particolare levatura intellettuale lo pone decisamente nelle condizioni di essere ampiamente documentabile.

Allora potrebbe essere verosimile che Torgotorio abbia retto la diocesi di Castro fino al 21 ottobre 1248, essendo lui il destinatario anonimo della lettera di Innocenzo IV che ignorava la sua morte, e che da quel momento, fino alla nomina di Marzocco, la sede castrense sia rimasta vacante. Ciò sarebbe giustificato anche dalla particolare situazione politica che attraversava la Sardegna, e specialmente la parte settentrionale, stretta com’era tra gli interessi pisani, imperiali, genovesi e vaticani.

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Quelle che possono apparire come questioni secondarie, come dicevo all’inizio di questo articolo, sono invece tasselli fondamentali per una ricostruzione storiograficamente perfetta di qualunque istituzione, sia essa civile o religiosa.

19 giugno 1969. A Pratobello si scrive una bellissima pagina di storia.

A Orgosolo, il 19 giugno di 47 anni fa, in località Pratobello, cominciò la protesta non-violenta delle popolazioni del centro barbaricino, le quali riuscirono ad ottenete la propria vittoria senza neanche sparare un colpo, senza riportare feriti, né causarne tra le forze dell’ordine.

In quanti conoscono questa storia? Alla domanda retorica bisognerebbe rispondere con una sana dose di curiosità, legata a fatti accaduti pochi anni fa e che è importante conoscere, per capire che la Sardegna, in quei luoghi tristemente famosi, ha il merito di farsi riconoscere anche per una grande battaglia di civiltà, che forse oggi qualche conterraneo pare aver dimenticato. Perché, se alla Maddalena “si stava meglio quando c’erano gli Americani”, o a Quirra – dove si trova il Poligono Sperimentale di Addestramento Interforze, il più grande d’Europa, luogo militare ceduto in fitto per milioni di euro a varie multinazionali per sperimentazioni belliche, coperte dal segreto di Stato, nonché da quello industriale – non si può fare a meno della presenza dell’Esercito, allora forse è il caso di fermarsi un attimo a riflettere su cosa potrebbe essere la Sardegna SENZA le basi di addestramento militare.

Per spingere a questa riflessione, da storico, ritengo che raccontare i fatti di Pratobello sia un modo assolutamente congeniale.

Lo faccio utilizzando “Soldati a Orgosolo” – la cronaca della lotta ingaggiata dagli orgolesi contro il poligono, curata dal Circolo giovanile del paese – e  un articolo comparso oggi nel sito http://www.sardiniapost.it, e completandolo con alcune informazioni, immagini e il video montato con una canzone dedicata ai fatti oggetto di questo breve pezzo.

I fatti cominciano nell’aprile del 1969, quando si diffonde in paese la notizia che nel villaggio abbandonato di Pratobello i militari abbiano intenzione di realizzare un poligono fisso per le esercitazioni. Ciò diventa certezza nel maggio successivo, quando arriva la ferale notizia: agli allevatori che utilizzano i pascoli comunali di Pratobello viene ordinato di sgomberare la zona interessata dalle esercitazioni di tiro. Sgomberare tutto significa mobilitare  “40mila capi per i quali lo Stato aveva previsto lo sgombero con un risarcimento di 30 lire giornaliere a pecora, mentre il mangime costa 75 lire al Kg”, si legge in un comunicato ciclostilato da un circolo giovanile di Orgosolo.

Inizia così una serie di assemblee cittadine che coinvolgeranno l’intera popolazione.
Da allora fino al 19 giugno, la prima delle 6 giornate di Pratobello, il commissario prefettizio di Orgosolo, la questura di Nuoro, gli stessi militari e le organizzazioni dell’Alleanza Contadini, della Coldiretti e della Cgil cercano di raggiungere un accordo sindacale, “qualunque sia, purché faccia contenti tutti”, sostiene il commissario prefettizio del paese in un primo incontro con pastori e contadini. Democrazia Cristiana e Partito Comunista propongono l’invio di un telegramma unitario al Ministro della Difesa Luigi Gui e al sottosegretario Francesco Cossiga per scongiurare o limitare le esercitazioni della Brigata Trieste. Ma non era quello il reale terreno di scontro che da li a poco verrà calpestato.

Si arriva così al 19, primo giorno di esercitazioni: lungo la strada che conduce al bivio di Sant’Antioco – Pratobello, si snoda un’interminabile fila di camion, moto-carrozzelle e vetture di ogni genere. Arrivati nei pressi della zona di Duvilinò, i manifestanti hanno un primo contatto con i militari: un’autocolonna che si sta portando nell’area interdetta a pastori e contadini viene bloccata. In quell’occasione, qualche militare incita i dimostranti a tener duro e a continuare la lotta in modo che anche i soldati possano tornare prima a casa. Arriva la polizia, cui si oppone un fronte compatto di uomini e donne. I poliziotti indietreggiano dopo essere stati circondati, subito dopo l’autocolonna fa retromarcia. Un bracciante commenta così: “Questa passerà alla storia come la più grande sconfitta dell’esercito italiano”, riportano le cronache di quei giorni.  Alle 11 gli orgolesi arrivano a Pratobello e si dispongono sulla linea di confine del territorio comunale. Si mantiene il presidio per tutto il giorno e i soldati non effettuano le esercitazioni.

Il giorno dopo, ovvero il 20 giugno, si ripete il picchetto e l’intera comunità si ritrova a Pratobello sin dalle prime luci dell’alba, nonostante il blocco stradale intentato dai poliziotti al bivio di Sant’Antioco. La reazione degli orgolesi non si fa attendere: donne e uomini iniziano a sollevare a mano le camionette. Chi in precedenza aveva aggirato la polizia pratica ora un blocco qualche centinaio di metri più avanti per impedire l’arrivo di altri blindati. Nel frattempo le donne incitano i bambini a tagliare i fili della linea telefonica. Una volta arrivati al poligono, almeno tremila orgolesi respingono fuori dal confine del territorio comunale la polizia e avanzano sino a pochi metri dalle tende dei militari.

Arrivano intanto gli onorevoli, che invitano i manifestanti a spostare l’assemblea sulla strada provinciale, lontano dal campo militare. In seguito alla trattativa degli onorevoli Dc, Pci e Psiup, il generale sospende le esercitazioni. Gli stessi onorevoli cercano poi il confronto con il prefetto di Nuoro, ma l’iniziativa si rivela infruttuosa. Il 21 e il 22 giugno sono giornate di tregua: durante il week-end non è prassi sparare. Intanto, in paese si diffonde la notizia dell’arrivo nuovi reparti di forze dell’ordine da tutte le maggiori città italiane. Il problema ora è l’isolamento di Orgosolo: Mamoiada e Fonni hanno infatti accolto di buon grado i militari, anche perché gli espropri decisi dal ministero della Difesa non ledono gli interessi di quelle comunità.

Già dalla notte del 22 alcuni pastori incominciano a portarsi in prossimità di Pratobello, ma dalle 4.30 l’accesso alla zona del poligono risulta bloccato da un ingente schieramento di poliziotti e carabinieri. Mentre il paese incomincia a mobilitarsi,“i baschi blu danno il via a una vera e propria caccia all’uomo”, si legge nel volume realizzato dal Circolo giovanile di Orgosolo. A gruppi di venti o trenta, come deciso nel corso dell’assemblea della notte precedente, gli orgolesi forzano le linee di demarcazione del poligono e si vanno a nascondere al suo interno per effettuare azioni di disturbo. Alcuni manifestanti riescono a dare fuoco ai bersagli che dovrebbero servire per le esercitazioni di tiro. Altri – circa 600 – vengono invece catturati e condotti al centro di raccolta allestito all’interno del poligono e poi rilasciati alla fine ella giornata. Circa ottanta manifestanti vengono poi trasportati alla questura di Nuoro, in due saranno processati per direttissima. Anche il 23 i mortai tacciono.

Alle 20, l’assemblea decide di inviare a Roma una delegazione composta dagli onorevoli Ignazio Pirastu (Pci), CarloSanna (Psiup) e Gonario Gianoglio (Dc). Con loro, tre pastori, un bracciante, un camionista, uno studente del Circolo democristiano, il presidente del Circolo giovanile. “La delegazione riceve il mandato di discutere, ascoltare, trattare, ma non di decidere”, riporta il verbale dell’assemblea.

“Anche se oggettivamente subordinata alla trattativa, la lotta continua il giorno successivo nelle stesse modalità del 23”, si legge in Soldati ad Orgosolo. Alla fine della giornata il bilancio sarà di 400 “sequestrati” e un arrestato. Intanto Pratobello diventa un caso politico: verso sera giunge la notizia del telegramma inviato da Emilio Lussu al Presidente della Regione Del Rio.“Lussu è forse l’unico politico sardo a cogliere lo spirito della lotta”, così commentano gli orgolesi.

Così recita il telegramma del fondatore del Partito Sardo d’Azione.

Quanto avviene a Pratobello contro pastorizia e agricoltura è provocazione colonialista, perciò mi sento solidale con pastori e contadini. Rimborso danni e premio in denaro è un offensivo palliativo che non annulla, ma aggrava l’ingiustizia. Se fossi in condizioni di salute differenti sarei con loro”.

“Il 26 giugno, il banditore sveglia il paese con il solito disco di ballu tundu verso le sei del mattino”, riportano le cronache del tempo. Il poligono si trova però in un’altra zona rispetto al giorno precedente, e comprende alcuni costoni impervi. Questo significa che la polizia non potrà usare le camionette. Quando iniziano le operazioni a difesa delle esercitazioni,gli agenti trovano il poligono pieno zeppo di gente. Sarà questa una delle giornate di lotta più intensa: gli orgolesi riescono a tenere sotto scacco migliaia di baschi blu. Lungo i costoni scoscesi del Supramonte, questi ultimi, impossibilitati a usare le camionette, mostrano subito segni di stanchezza . Un gruppo di braccianti e di giovani pastori continuamente inseguiti da un centinaio di baschi blu lascia sul terreno dei volantini con scritto: “Quanto ti paga il tuo padrone Rovelli per inseguirci?”. I manifestanti, non appena avvistati, scompaiono tra gli alberi o, meglio, sopra gli alberi, nel folto dei lecci, visto che i baschi blu non controllano sopra la loro testa.

Nel frattempo fa ritorno in paese la delegazione partita due giorni prima alla volta di Roma. Così, alla spicciolata, i manifestanti fanno ritorno in paese, dove la delegazione rende note la posizione del ministro della Difesa Gui presentate dal sottosegretario Francesco Cossiga: il poligono è temporaneo ed andrà avanti fino alla metà di agosto; non vi è allo stato attuale nessuna decisione di trasformare il poligono in un’istituzione permanente, ogni eventuale decisione in merito per qualunque zona della Sardegna verrà adottata seguendo tutte le procedure ordinarie di legge, e in particolare sentendo il parere delle amministrazioni locali interessate, subordinando la scelta ai programmi e alle esigenze sociali di sviluppo, una commissione militare esaminerà in loco la possibilità di una riduzione dell’area del poligono, al fine di limitare per quanto possibile il disagio, i lavoratori della forestale avrebbero percepito la paga per i giorni di mancato lavoro, parte dei rifornimenti della Brigata Trieste sarebbero stati acquistati ad Orgosolo. L’assemblea si chiude con la ratifica del documento. Terminano così le sei giornate in cui Orgosolo tenne lo Stato sotto scacco a Montes, Funtana Bona, Duvilinò e Pratobello.

La vicenda si conclude quindi con una grande vittoria di popolo: senza che sia stato sparato un colpo di arma da fuoco, la popolazione è riuscita a far prevalere la propria volontà su quella dello Stato. Al processo tutti gli orgolesi denunciati per i fatti appena narrati vengono prosciolti.

Il link al video Orgosolo pro terra de bandidos, una poesia di Giuseppe Rubanu.

Gli Stamenti del Parlamento Sardo.

Gli stamenti erano ciascuna delle componenti del parlamento di vari regni medievali e moderni: quando il parlamento si riuniva in sessione plenaria, le sue componenti assumevano la denominazione di bracci, mentre quando si riunivano separatamente si chiamavano, appunto, stamenti.

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Nel Regno di Sardegna gli stamenti rappresentavano i tre bracci, organi del Parlamento locale. Il gesuita Francesco Gemelli, autore del “Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura”, nel 1776 così definì il termine stamento:

In lingua castigliana dicesi estamento, e in catalano estament, estat o bras (braccio) significa non solo la giunta o le corti del Regno ma eziandio ciascuno de’ tre corpi componenti la giunta (il Parlamento): ciò il militare comprendente i feudatari, il regio abbracciante i deputati della città e de’ luoghi di regia giurisdizione, e l’ecclesiastico composto dagli arcivescovi, vescovi…

Infatti, i bracci del Parlamento generale del Regno di Sardegna, che si ispiravano al modello delle Corts catalane, erano tre: l’ecclesiastico che comprendeva le dignità e gli enti ecclesiastici o i loro procuratori; il militare, di cui facevano parte non solo i militari, ma tutti i nobili e i cavalieri; il reale, che comprendeva i rappresentanti delle sette città regie (Cagliari, Sassari, Alghero, Oristano, Iglesias, Bosa, Castello Aragonese).

Il Parlamento sardo svolgeva le seguenti funzioni: concessione del donativo, ripartizione dei tributi, partecipazione all’esercizio del potere normativo attraverso la sottomissione di proposte legislative all’approvazione del re, le verifiche relative alla rituale formalità della convocazione ed ai poteri degli intervenuti. Era fondato su una concezione contrattualistica dei rapporti tra sudditi e sovrano: i “capitoli di corte” erano vere e proprie leggi pazionate, giacché il “do” dell’istituzione che approvava il donativo al re era sottoposto alla condizione di un “des” rappresentato dall’approvazione sovrana delle proposte che gli stamenti inoltravano alla Corona. I lavori parlamentari si svolgevano nei giorni e nelle sedi stabilite dal re e nella lettera di convocazione era indicato un sommario ordine del giorno. Il primo giorno dell’apertura e quello della chiusura erano detti giorni di “soglio” perché gli stamenti si riunivano in forma solenne nella sede convenuta (nel duomo se a Cagliari), presente il re o viceré che sedeva sul trono o soglio. Nei giorni seguenti gli stamenti si riunivano separatamente (l’ecclesiastico presso l’arcivescovado o nella sacrestia del duomo; il militare nella chiesetta della Speranza in
Castello; ed il reale in una delle sale del municipio) e trattavano fra loro o col viceré per mezzo di ambasciate di uno o più dei propri membri. Al termine dei lavori i “bracci” singolarmente o congiuntamente presentavano le proprie richieste al sovrano e versavano all’erario regio il donativo, un particolare sussidio in denaro. Prima della solenne chiusura erano previste le concessioni di gratifiche e privilegi. Approvate dal re, le richieste assumevano il valore di capitoli di corte.

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Pietro IV d’Aragona, detto il Cerimonioso

Il primo parlamento del Regno di Sardegna fu aperto a Castel di Cagliari da Pietro IV il Cerimonioso, il 15 febbraio 1355. Seguirono altre riunioni fino all’ultima del 1698 – 1699 dal momento che sotto il governo sabaudo nei secc. XVIII – XIX gli stamenti non furono più convocati. L’istituto parlamentare rimase in vigore fino al 29 novembre 1847 quando, con la “fusione perfetta con gli stati di terraferma” la Sardegna adottò le leggi e gli ordinamenti piemontesi rinunciando all’assetto istituzionale e normativo vigente fin dal sec. XIV.

Nel corso del Quattrocento questo importante organo ebbe modo di far sentire la propria voce anche in merito alla presenza ingombrante della corona aragonese, specialmente per la pretesa di re Ferdinando il Cattolico di nominare egli stesso i vescovi della Sardegna, nel tentativo di far presidiare il territorio da uomini fedeli alla corona e in questo modo ingraziarsi lo stesso popolo sardo.

Anche nella storia di Castro accaddero fatti che richiamarono l’attenzione degli Stamenti del Parlamento Sardo: infatti re Ferdinando si spendeva non poco per fornire il supporto necessario alla accettazione della nomina dei vescovi a lui graditi. In una lettera del 1482, il re scrive a papa Sisto IV, supplicandolo di approvare la nomina del tarragonese Bernardo Jover, “prior in Oristanni, meus capellanus“, adducendo a buona prova la sua età, la sua gravitas, ovvero la sua autorità, e non ultima la sua erudizione. Bernardo Jover  veniva quindi eletto il 14 febbraio e 1483 e sarebbe rimasto vescovo fino al 1490.

Fatti simili sono davvero numerosi. Li analizzeremo a breve.

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Ferdinando II d’Aragona, detto il Cattolico

 

Prime attestazioni dell’episcopato castrense

Condague de sa Abadia de sa SS. Trinidade de Saccargia, instituida et fundada dae su Sereniss. Constantinu de Laccon, Ree, et Juyghe qui fuit de Logudoro, cum sa Illustriss. Donna Marcusa de Gunale mugiere sua.

Inizia così il condaghe di solenne consacrazione della chiesa abbaziale della Santissima Trinità di Saccargia, databile al 1116.

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Basilica della SS. Trinità di Saccargia

È in questo lungo documento che ritroviamo la prima attestazione dell’esistenza dell’episcopato a Castro, importante diocesi del nord Sardegna, confinante a est con i territori sottoposti alla diretta tutela della Santa Sede, quelli delle diocesi di Civita e Galtellì, a nord con i territori di Ampurias e ancora di Civita, a ovest con la piccola Bisarcio e a sud con Ottana.

Nel documento oggetto di questo breve articolo, il vescovo di Castro è citato in forma anonima nella lista dei concelebranti la consacrazione della nuova basilica, assieme ad altri numerosi presuli.

Hue, vistu su sanctu Padre qui sa dimanda issoro fuit manna et justa, pro salude de sas animas cumandait a totu sos Prelados de Sardigna, qui vennerent a consecrare sa dicta ecclesia de sa Trinidade, et innivi ponnerent grande perdonu pro salvassione de sos christianos. Quales fuerunt su donnu de su Archiepiscopu de Turres, su donnu de su archiepiscopu de Oristanis, su donnu de su archiepiscopu de Calaris, misser Albertu episcopu de Sorra, misser Pedru episcopu de Bisarchiu, misser Pedru episcopu de Bosa, su episcopu de Sulcis, su episcopu de Castra, su episcopu de Flumen, su episcopu de Pioaghe, su episcopu de Ortilen, et ateros episcopos, abades, propres, canonigos, preideros, et ateros religiosos cum multitudine de gente et luminaria manna, cum devotas oraciones et oficios.

Il testo è da alcuni considerato di dubbia attendibilità, dato che fu compilato nel XVI o XVII secolo, anche se, forse, si basa su materiali genuini.

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Possiamo immaginare comunque la magnificenza della funzione di consacrazione di un così importante luogo di culto e di amministrazione del territorio, com’era l’imponente basilica di Saccargia, tanto che appunto papa Pasquale II ordinò a tutti gli ecclesiastici di Sardegna di partecipare alla celebrazione.

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Chiesa cattedrale di Nostra Signora di Castro

Una fonte sicuramente certa dell’esistenza della diocesi di Castro risale al 3 settembre 1127, quando il vescovo Adamo sottoscriveva la cessione in usufrutto della chiesa di San Michele di Plaiano a favore dei Vallombrosani, da parte dei canonici Santa Maria di Pisa.
Altre notizie su Castro riguardano, come anche nella fonte precedentemente analizzata, l’ordinaria amministrazione della diocesi, con notizie sui movimenti diplomatici, come quando, nel 1176 il vescovo Attone si univa agli altri prelati della provincia turritana nel riconoscere all’arcivescovo pisano Villano il titolo di primate e legato pontificio in Sardegna.

Un portale dimenticato…

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Foto Google 2016 ©

Sulle sponde oschiresi del lago Coghinas, nella parte a nord, si trovano i poveri resti della chiesa detta di San Giorgio, in quello che era il villaggio di Balanotti, già noto da fonti come le Rationes Decimarum Italiae Sardinia.

Le notizie sul villaggio sono veramente poche, e da quelle che abbiamo possiamo trarre la conclusione che esso si svuoti attorno al XV secolo, a favore forse del villaggio di Castro, sede di diocesi dal XII al XVI secolo, che dista solo 6 km in linea d’aria; altri centri minori come Otti e Sas Ruinas (nome significativo, forse assegnato dopo l’abbandono del sito) seguirono la stessa sorte di Balanotti, a favore del centro già allora di maggiori dimensioni, ovvero Oschiri. Voglio inoltre sottolineare il fatto che anche l’intitolazione della chiesa a San Giorgio non è, ad oggi, suffragata da prove documentali, per cui sarà utile, a tal scopo, rinvenire negli archivi diocesani di Ozieri o di Alghero, notizie al riguardo.

L’unico elemento di notevole interesse è il portale, che risulta anche pericolosamente in bilico, e potrebbe crollare da un momento all’altro, causando ulteriore danno alla storia di questa chiesa e del villaggio medievale che la circondava. Il portale potrebbe effettivamente essere un’aggiunta posteriore (anche di secoli) alla fase d’impianto dell’edificio, di cui possiamo solo supporre la struttura, costituita sicuramente da una navata semplice di una ventina di metri circa, con un’addizione sul lato meridionale. Nel fregio su cui poggia il timpano è presente un’iscrizione di semplice lettura, ma di difficile interpretazione, almeno nella seconda parte:

HOC. OPVS. FECIT. FIERI. K. OPERARIVs (IHS) SANO. IGOZ. MROSMAG. EC. IGVIPAPORILGI  /  ALE.

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La sua decifrazione potrebbe esser utile per datare almeno il portale: sembra in ‘capitale latina’ quindi databile a partire dal Rinascimento, ma anche in questo caso potrebbe trattarsi di un’aggiunta posteriore alla realizzazione del portale. Al momento si può solo affermare che gli elementi e i decori che connotano il portale non rientrano negli ornamenti introdotti dal ‘classicismo’ rinascimentale e anche le proporzioni sembrano molto particolari. Forse varrebbe la pena cercare qualche fonte documentale che permetta di articolare un ragionamento di datazione.

Della chiesa sappiamo che la tradizione la vorrebbe “aragonese”, quindi di fondazione nel periodo che intercorre tra il 1297 e il 1479 circa; recentemente, da alcune fotografie dell’architrave, è stata letta una data completamente fuori da questi estremi cronologici, ovvero il 1608, ma altri epigrafisti non hanno confermato la presenza di questa data, la quale entrerebbe in conflitto anche con quanto detto sul fenomeno di abbandono del villaggio: avrebbe senso la costruzione di una chiesa in un villaggio disabitato? È pur vero che di chiese campestri abbonda il territorio, ma il sito dove insistono i miseri resti di San Giorgio è stato abitato fino al XV secolo, e non avrebbe senso una costruzione ex post.

Una pericolosa indifferenza avvolge questo luogo, e ha portato al suo quasi completo annientamento: il portale è l’ultima vestigia di un’epoca storica, il medioevo, che dovrebbe essere rivalutata, e aspettare il crollo di ciò che resta della chiesa, per poi magari veder sparire i conci lavorati che magari andrebbero ad abbellire le case di taluni, è veramente intollerabile. Un semplice intervento di prima tutela potrebbe essere quello di mettere in sicurezza l’area, con un’opera di puntellamento del portale: poi si deciderà cosa farne, se trasportarlo ad Oschiri e musealizzarlo, oppure lasciarlo in loco e valutare se ricostruire la chiesa.

 

In questa sorta di appello si sentano tutti coinvolti, non solo gli organi preposti alla tutela del patrimonio storico, culturale ed artistico, ma anche ogni singolo cittadino, che dovrebbe sempre vigilare affinché i siti di interesse siano adeguatamente custoditi e valorizzati.

Castro: diocesi medievale sarda.

Il potere attraverso le nomine episcopali – seconda parte

Bernardo Jover (1483-1490), di Tarragona, successore del canonico sassarese Cristoforo Mannu (1478-1483), veniva eletto il 14 febbraio 1483[11]. Bernardo è la figura responsabile del percorso di ricerca che si è voluto intraprendere in questo lavoro di tesi, perché la sua nomina venne particolarmente patrocinata dal Re Ferdinando II il Cattolico, che chiese al Papa la nomina di Jover a vescovo di Castro, e ciò dimostra, meglio di ogni speculazione e di ogni lettura delle fonti, la pesante ingerenza che la corona aragonese poté esercitare sulla Sardegna, attraverso e con il beneplacito della Santa Sede.

Il re Fernando si spendeva non poco per fornire alla sua causa il più ampio consenso possibile. Vedremo, nei documenti riportati qua di seguito, la lettera che il Cattolico invia a Sisto IV e quella scritta al vescovo di Barcellona, Gonzalo Fernandez de Heredia. In Appendice sono presentati anche i due documenti inerenti il medesimo sistema di sollecitazione del Re al Papa per la nomina del vescovo di Ottana, e altre questioni.

XI. 1482. Madrid – Fernando al Papa Sixto IV, suplicándole provea el obispado de Castro, en Cerdeña, vacante por muerte del último posesor, a Bernardo Jover, prior de Oristany, y su capellán, con retención de los beneficios que poseía.

Sepe alias Beatitudini Vestre supplicaui, ut in his regnis meis, que ab Hispania longe absunt, viris fidelibus et alumpnis meis episcopatus dignitatesque conferret; neque enim aliter, absete rege, res publice servuarii possunt, que si illis viri regibus suis fidi preficiantur. Itaque cum Bernardus Jouer, prior Oristanni, meus sit capellanus, et felicis memorie serenissimi regis dominici ac parentis mei pientissimi [sic] alumpnus, totamque vitam in mea et ipsius domo seruitute ingenti consumpsit; quo quidem et etate, grauitate ac erudicione vite quoque sanctimonia imprimis pollet, dignus michi visus est qui episcopatuy Castresni, in regno Sardinie, preficeretur. Nam superioribus diebus Christoforus Mainius, eiusdem suplico ut, meo respectu quetis quoque illius insule intuytu, eam dignitatem illi conferat; et preter id, quoniam ea tenuis est et exilis neque alendo pontiffici sufficiens supplex, oro ut facultatem retinendorum beneficciorum suorum, que possidet, illi tribuat. Erit enim id michi gratissimum et summi muneris loco ascribet…[12].

Era prassi consuetudinaria quella di avere lettere di accreditamento o di patrocinio per la nomina a particolari uffici, ma ciò che risulta interessante è la sollecitudine con la quale Ferdinando perora la sua causa, affermando che la etate, grauitate ac erudicione vite quoque sanctimonia imprimis pollet, dignus michi visus est qui episcopatuy Castresni, in regno Sardinie, preficeretur. Un endorsement tutt’altro che disinteressato.

XI. 1482. Madrid – Fernando al obispo de Barcelona, Gonzalo Fernández de Heredia, recomendándole el asunto del obispado de Castro, de los documentos anteriores.

A nuestro muy Santo Padre y a nuestro compadre el cardenal vicecanciller scriuo sobrel obispado de Castro, en el mi reyno de Serdenya, suplicando a Su Santidad que le quiera conferir a mossen Bernal Jouer, prior de Oristany, mi capellan, y rogando al dicho cardenal que en este nogocio entreuenga. Persona es desto y de mayor cosa mercedora, assi por su edat y buenas costumbres, como pro los muchos seruicios que al rey a mi señor, que Dios haya, y a mi ha fecho. Yo vos ruego y mando trebageys en esto con todas vuestras fuerças, y sobretodo que se le de con retencion de sus beneficios, por quanto aquella dignidat es de muy poca renta, y no es conuenible ni iusta cosa tal dignidat no tener con que se sostenga. Y en esto me seruireys muy mucho. E porque mejor sepays el negocio y forma que screuimos a Su Santidat y al dicho cardenal, os embio dentro las presentes traslados de las dichas letras. quel es fago… L. Gonçales, secretarius.[13].

Come già detto, la richiesta del Cattolico venne soddisfatta, e non era la prima volta che ciò accadeva, o quantomeno che il re avesse insistito presso il Papa perché i vescovi della Sardegna fossero suoi sudditi fedeli ed a lui legati per particolari vincoli di gratitudine, anche con lo scopo di attirare sempre maggior consenso agli aragonesi presso il popolo di Sardegna, sebbene ciò non dovette verificarsi, non fosse altro che per la concorde richiesta degli stamenti[14] perché alle sedi vescovili sarde non fossero più promossi degli stranieri.

Di Bernardo abbiamo notizie anche precedenti all’episcopato castrense, ma quasi tutte sono di carattere economico patrimoniale. Alcune risalgono al 1470, quando è data notizia dell’appropriazione di alcune terre da parte dello Jover, le quali erano ritenute senza proprietario, che invece era l’arcivescovo di Pisa. Quando la faccenda venne posta al vaglio dell’arcivescovado pisano, si decise per assolvere lo Jover dal rifondere il legittimo proprietario dei frutti arretrati, goduti in passato, e che da quel momento avrebbe dovuto versare la somma di 4 fiorini d’oro fino ogni anno. Decisamente un gesto di clemenza tutt’altro che diffuso, specie in riferimento alla difesa dei poteri economici di istituzioni potenti e territorialmente molto estese come l’arcidiocesi di Pisa.

Siamo alle soglie del momento in cui Ferdinando ii prenderà il titolo di re di Aragona, Valencia, Sardegna, Maiorca e re titolare di Corsica, Conte di Barcellona e delle contee catalane dal 1479 al 1516. Sicuramente, e ora lo vedremo, continuando ad analizzare la cronotassi castrense, Ferdinando aveva fatto in modo di prepararsi una buona accoglienza istituzionale in Sardegna.

Oltre ai benefici della mensa vescovile di Castro, Bernardo nel 1479 era stato nominato dal re Giovanni ii di Trastámara Priore di San Salvatore di Oristano, con dodici cappellani beneficiati e una dotazione annua complessiva di 85 lire barcellonesi, di cui 25 assegnate al Priore ed il resto agli altri cappellani e per i bisogni della chiesa. Il 2 gennaio 1480 Ferdinando succedette al padre e confermò quanto da egli stabilito.

Al beneficio di San Salvatore, a quello del canonicato nel capitolo cattedrale di Cagliari, agli onorari come consigliere e cappellano di corte in Spagna, si aggiungevano pure altri benefici non meglio identificati, di cui poteva godere il possesso in Spagna, e per i quali il re, nella domanda per la promozione di Bernardo a Castro, pregava il pontefice perché gli venissero conservati.[15]

Dopo due anni dalla sua nomina a Castro però, lo Jover veniva nuovamente proposto dal Re Ferdinando per la sede di Usellus (Ales), resasi vacante per la morte del vescovo Giovanni de la Bona. Nella supplica al Papa il Re dichiarava di rinunciare al suo diritto di presentazione del nuovo titolare di Castro, bontà sua, lasciando però che a proporne il nominativo fosse il viceré di Sardegna:

12. VIII. 1484 – Cordoba – Fernando suplica al Papa la concesion de obispados en Cerdena a Bernardo Jover el de Ales, Usellensis, vacante por muerte de Juan de la Bona, renunciando el de Castro, con pensiòn a favor de Garcia Gonzàles, hijo de su secretario Luis Gonzàles. Para el obispado de Castro la persona que designe el virrey de Cerdeña. Para el de Terralba, Massullensis, vacante por muerte de Juan Pellís, a Ramón Ibarri, vicario de Santa María Magdalena de Zaragoza, con pensión para García Gonzáles.

Memini vestre Beatitudini sepe alias suplicasse ut, his in regnis meis, que ab Hispania longe absunt, viris fidelibus et alumpnis meis episcopatus dinitatesque confferetur, neque eum aliter, absente rege, res publice seruari possunt, quam si illis viri regibus suis fidi preficiantur. Itaque cum venerabilis bernardu Jouer, episcopus Castrensis, meus sit capellanus, ac, felicis memorie, serenissimi regis domini et parentis mey pientissimi alumnus, totamque vitam in mea et ipsius seruitute consumpsit, quo quidem et etati gratuitate et erudicione vite quoque senctimonia in primis pollet dignus, michi visus est qui episcopatum Usselensis, vulgariter dicto de Ales, in prouincia Arborensis, regni mei Sardinie, preficeretur, ob eius episcopatus memorati Castrensis spontaneam recunciacionem, promocionem et traslacionem, nam superioribus diebus, Johannes de la Bona, eiusdem sedis Usselensis episcopus, mortem obiuit, cuius redditus ad summa ducatorum centum quinquaginta auri vel inde circa attingunt; cum annua tamen pensione ducatorum auri decem super eisdem, per vestram sanctitatem imponenda atque solui precipienda Garcie Goncales, filio dilecti consiliarii et secretarii nostri Ludouici Gonçalez, in adminiculum expensarum ac sustentationis studi ipsius, intuytu seruiciorum ab eius patre michi indesinenter impensorum. De ipso autem episcopatu Castrensi, ob renunciacionem, promocionem et traslacionem predictam, similibus quos dici respectibus, prouideretur dignum michi visum est in personam Sanctitati vestre nominandam per Guillermum de Peralta, viceregem in dicto meo Sardinie regno. Preterea in persona eciam Raymundi Euarii, perpetui vicarii ecclesie parrochialis beate Marie Magdalenes, ciuitatis Cesaguste, de episcopatu Massullensi, alias Terralbensi, obitu Johannis Pellis, nunc vacante; cum annua pensione ducatorum auri viginti super redditibus dicti vicariatus ut prefertur, inponenda, ace idem Garcie Goncales prima racione exsoluenda. Eamobrem Beatitudini vestre humiliter suplico ut meo respectu, quietis quoque illius insule intuitu, eisdem dignitatis cuilibet predictorum ut dictum est, cum pensionibus pretactis, conferre dignetur. Non obstante quaqunque forte contraria eleccione et pronunciacione. El preter id, quoniam ille tenus sunt et exilles, neque alendis pintifficibus sufficientes, supplex oro ut facultatem retinendorum benefficiorum, que possident, sicuti ipse Castrensi episcopus iam habet, unicuique eorum tribuat… L. Gonçales, secretarius[16].

Probabilmente, con questa mossa, il re tendeva a venire incontro, formalmente, alle sollecitazioni degli stamenti, che avevano richiesto che i vescovi fossero nominati tra i sardi; anche se poi, in pratica, sarebbe stato lui stesso a nominarlo, attraverso le sue istruzioni al viceré.

Ma se fu effettivamente questa la data in cui la lettera venne scritta, il 12 agosto del 1484, non si spiega come il Re potesse ignorare che già il 21 luglio Sisto IV avesse preposto «alla chiesa di Usellus, vacante per la morte del vescovo Giovanni, il maestro di teologia e di arti, Pietro Garcia, continuo commensale del cardinale Roderico, vescovo portuense e vicecancelliere della Santa Sede»[17]: al Re infatti spettava il diritto di patronato e di presentazione su tutti i vescovadi. Questa volta però, la richiesta non doveva avere esito felice: infatti, proprio il giorno in cui veniva spedita la lettera moriva il Pontefice Sisto iv, ed a lui succedeva Innocenzo viii che nonostante la petizione regale lasciava Jover a Castro fino alla morte.

A Bernardo succedette Giovanni Crespo (1490-1493) degli eremitani di S. Agostino; al suo trasferimento ad Ales il papa, forse accogliendo l’ennesima supplica del re aragonese, nominò un altro spagnolo, Melchiorre de Tremps (1493-1496), che non lascia memoria nel vescovado, e amministra per soli tre anni.

Giovanni Garcia (1496-1501) era un monaco benedettino del monastero di San Michele di Fluviano della diocesi di Girona, in Catalogna: anche di lui, come del precedente, sappiamo poco o nulla, oltre al nome. Il Codice Diplomatico delle Relazioni tra la Santa Sede e la Sardegna, nel doc. n. CCCXLVIII reca la notizia della visita ad limina del vescovo di Castro, compiuta per procura da Giovanni Gomez, prete della diocesi spagnola di Segorbe[18].

La sequenza dei vescovi medievali di Castro si esaurirà con la nomina del vescovo Antonio de Toro, maestro di teologia. Amadu[19] suggerisce che il prelato potesse essere anch’egli di origine spagnola, traendo questa ipotesi dal cognome, che potrebbe essere l’adattamento del sardo De Thori o Dettori, ma anche la provenienza dal paese di Toro, cittadina spagnola, sede anche di un convento francescano.

Una pergamena rinvenuta nell’altare durante i restauri della chiesa campestre di Santo Stefano, a Oschiri, riporta la data di consacrazione della chiesa, celebrata da Antonio de Toro, il 25 aprile 1504[20], e ora conservata nell’archivio parrocchiale di Oschiri.

Il testo recita:

«An(n)o M(illesimo)D(ucentesimo)IIII.XXV. aprilis. Ego A(ntonius) Dethoro Ep(iscop)o castrensis co(nse)cravi eccle(si)a / et altare hoc in honorem s(anc)ti Stefani. Et reliquias Beatorum martir<um> [così in A] Naboris / et Felicis et Laurenti in eo inclusi. Singulis (Christ)i fidelibus hodie un(um) annu(m). et in die / an(n)iv(er)sario (con)secra(ti)onis XL dies de v(er)a indungencia concedens in forma ecclesiae.»

Il momento in cui il vescovo Antonio prendeva possesso della diocesi era particolarmente delicato per la fase avanzata del processo di riordinazione delle provincie ecclesiastiche. Il 12 aprile 1502, infatti, pochi mesi dopo la nomina di Antonio de Toro a Castro, veniva completato il vasto quadro delle disposizioni per la riforma delle diocesi sarde. Sicuramente lo choc di questo riassetto territoriale dovette creare non poche difficoltà al vescovo: infatti l’episcopato castrense fu de facto svuotato delle sue prerogative, le quali vennero trasferite prima ad Ottana e poi ad Alghero, ma l’incarico di de Toro non decadde in concomitanza di questa riorganizzazione. La sede rimase praticamente retta dal De Toro fino alla sua morte, avvenuta probabilmente attorno alla fine del primo decennio del xvi secolo: questa sovrapposizione di due vescovi nel medesimo territorio creò sicuramente delle difficoltà amministrative, ma, non conoscendo i limiti delle attribuzioni dei vescovi ancora in sede nelle diocesi soppresse dopo la data dell’8 dicembre 1503, si può comunque ritenere, in base a varie notizie, che venisse loro tolto ogni emolumento o retribuzione ad essi spettanti prima della soppressione. È noto che ai vescovi delle sedi soppresse venissero affidati incarichi particolari con l’assegnazione di “commende” di benefici vacanti, e il fatto che essi conservassero ufficialmente il titolo episcopale ci fa credere che il passaggio della gestione amministrativa ad Alghero sia di Castro che di Bisarcio e Ottana, avvenisse progressivamente, coincidendo appunto con la morte dei prelati. Una prova che ci dimostra la continuità dell’attività da vescovo di Antonio de Toro è la sua presenza, nel 1507, a Roma, dove concelebra la Messa solenne nella Chiesa di Santa Croce, alla presenza del Sacro Collegio dei Cardinali[21].

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NOTE

[11] Codice Diplomatico delle Relazioni tra la Santa Sede e la Sardegna, vol. II, p. 214, doc. nn. CCLXXXIII, XXLXXXIV.
[12] Documentos sobre relaciones internacionales de los Reyes Catòlicos, a cura di A. de la Torre, Barcellona 1949, vol. I, pp. 280-281
[13] Ibid., vol. I, p. 281.
[14] Gli stamenti erano ciascuna delle componenti del parlamento di vari regni medievali e moderni: quando il parlamento si riuniva in sessione plenaria, le sue componenti assumevano la denominazione di bracci, mentre quando si riunivano separatamente si chiamavano, appunto, stamenti. Nel Regno di Sardegna gli stamenti rappresentavano i tre bracci, organi del Parlamento locale. Il gesuita Francesco Gemelli, autore del “Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura”, nel 1776 così definì il termine stamento: “in lingua castigliana dicesi estamento, e in catalano estament, estat o bras (braccio) significa non solo la giunta o le corti del Regno ma eziandio ciascuno de’ tre corpi componenti la giunta (il Parlamento): ciò il militare comprendente i feudatari, il regio abbracciante i deputati della città e de’ luoghi di regia giurisdizione, e l’ecclesiastico composto dagli arcivescovi, vescovi, …”. Infatti, i bracci del Parlamento generale del Regno di Sardegna, che si ispiravano al modello delle Corts catalane, erano tre: l’ecclesiastico che comprendeva le dignità e gli enti ecclesiastici o i loro procuratori; il militare, di cui facevano parte non solo i militari, ma tutti i nobili e i cavalieri; il reale, che comprendeva i rappresentanti delle sette città regie (Cagliari, Sassari, Alghero, Oristano, Iglesias, Bosa, Castello Aragonese). Il Parlamento sardo svolgeva le seguenti funzioni: concessione del donativo, ripartizione dei tributi, partecipazione all’esercizio del potere normativo attraverso la sottomissione di proposte legislative all’approvazione del re, le verifiche relative alla rituale formalità della convocazione ed ai poteri degli intervenuti. Era fondato su una concezione contrattualistica dei rapporti tra sudditi e sovrano: i “capitoli di corte” erano vere e proprie leggi pazionate, giacché il “do” dell’istituzione che approvava il donativo al re era sottoposto alla condizione di un “des” rappresentato dall’approvazione sovrana delle proposte che gli stamenti inoltravano alla Corona. I lavori parlamentari si svolgevano nei giorni e nelle sedi stabilite dal re e nella lettera di convocazione era indicato un sommario ordine del giorno. Il primo giorno dell’apertura e quello della chiusura erano detti giorni di “soglio” perché gli stamenti si riunivano in forma solenne nella sede convenuta (nel duomo se a Cagliari), presente il re o viceré che sedeva sul trono o soglio. Nei giorni seguenti gli stamenti si riunivano separatamente (l’ecclesiastico presso l’arcivescovado o nella sacrestia del duomo; il militare nella chiesetta della Speranza in Castello; ed il reale in una delle sale del municipio) e trattavano fra loro o col viceré per mezzo di ambasciate di uno o più dei propri membri. Al termine dei lavori i “bracci” singolarmente o congiuntamente presentavano le proprie richieste al sovrano e versavano all’erario regio il donativo, un particolare sussidio in denaro. Prima della solenne chiusura erano previste le concessioni di gratifiche e privilegi. Approvate dal re, le richieste assumevano il valore di capitoli di corte. Il primo parlamento del Regno di Sardegna fu aperto a Castel di Cagliari da Pietro iv il Cerimonioso, il 15 febbraio 1355. Seguirono altre riunioni fino all’ultima del 1698 – 1699 dal momento che sotto il governo sabaudo nei secc. XVII – XIX gli stamenti non furono più convocati. L’istituto parlamentare rimase in vigore fino al 29 novembre 1847 quando, con la “fusione perfetta con gli stati di terraferma” la Sardegna adottò le leggi e gli ordinamenti piemontesi rinunciando all’assetto istituzionale e normativo vigente fin dal sec. XIV. La definizione oggi è mutata: per l’Italia sono la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, per l’Inghilterra sono la House of Lord e la House of Commons, per la Francia sono l’Assemblée Nationale e il Sénat, e così via.
[15] CDR, vol. II, p. 215, doc. n. CCLXXXIV: «Dilecto filio Bernardo Electo Castrensi salutem etc. Il pontefice Sisto IV dà facoltà a Bernardo, eletto di Castro, di tenere benefici ecclesiastici in Spagna, perché possa sostenere con decenza la sua dignità episcopale».
[16] Documentos sobre relaciones…, cit., vol. II, pp. 76-77.
[17] CDR., vol. II, pp. 218, doc. n. CCXC.
[18] Ibid., vol. II, p. 245, doc. n. CCCXLVIII: Universis etc. Raphael etc. Universitati etc. quod cum R. P. D. Johannes episcopus Castrensis, Romana Curia citra montes existente, limina Beatorum Petri et Pauli apostolorum de Urbe singulis bienniis presenti et currenti per R. D. Johannem Gomez presbyterum Segobricensem honore etc. visitavit. Datum Rome anno 1500, die vero XXI.
[19] Amadu, La diocesi medievale di Castro, p.145, n. 1, Ed. Il torchietto, Ozieri, 1984
[20] Cfr. p. 96, nota 128.
[21] Eubel Konrad, Hierarchia Catholica Medii Aevi, II, p. 136.

In risposta al post “Perché non c’è il cimitero a Porto Cervo? Se non c’è la morte non c’è neanche l’acabadora!” di Roberto Carta

Ho letto il post del caro amico Roberto Carta, dal titolo significativamente evocativo “Perché non c’è il cimitero a Porto Cervo?“, e mi è venuto subito in mente Michelangelo Pira, nostro illustre compaesano, del quale ci sono rimaste molte opere importanti. Ma a mio avviso, è specialmente nel libro “Sos Sinnos” che Mialinu ‘e Crapinu è riuscito ad aprire la sua anima profonda di bittese, oschirese d’adozione, e mettere in parole quelle cose stesse che lui definiva inconcepibili in italiano, secondo la concezione stessa della parola parlata, ma che anzi assumevano un significato diverso se la stessa cosa era definita con la parola italiana o cun sa limba ‘e Mama, con la lingua della Mamma, la lingua della propria terra. E allora lo stesso suo nome, Michelangelo Pira, era sentito come il nome dello Stato, il nome della Scuola propria; il nome del cuore, della terra, de Babbu e Mama, era Mialinu ‘e Crapinu, il nome di quella Scuola impropria che sempre ha ricoperto fondamentale importanza nella produzione filosofica e antropologica di Mialinu.

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Allora, per tornare al post di Roberto, del quale vi invito alla lettura, credo che il senso della morte per queste realtà potrebbero essere ridiscusse e considerate sotto punti di vista antropologici e storici, fedelmente riportate da alcune parole del testo di Mialinu (anche se potrebbero essere utilizzate tutte), specialmente quando egli afferma la differenza tra gli uomini di città, “estitos che mortos in baule“, e di quella “zente de bidda” che incarna ancora e sempre quella vitalità che non si guadagna con il potere, con la fama, con il proprio nome scritto sui giornali, o la propria voce che offende le orecchie da una radio, o dalla televisione.

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Ma preferisco non dilungarmi troppo e lasciare direttamente a Mialinu il compito di spiegare, con la sua parlata bittese, quanto intende dire e quanto io intenda condividere del suo pensiero. La parlata bittese si può apprezzare se sentita in viva voce, ma letta forse assume coloriture forti e spigoli difficili da smussare: mi scuso se ho commesso qualche errore di scrittura, ma ritengo che il senso, comunque, sia comprensibile.

[…] Ma como, diat’esser tempus de mi torrare a bidda, e de bi lis contare de sa vita chi hachen’in zitate, e de bi lis’ispiegare chi sos chi si credent ominer vonos ca ‘nde ‘aeddan sos giornales, ei sa radio, e sa televisione, sunu, a narrer sa veritate, omineddos de pacu prus’a mancu, chi a sa zente savia nostra no diant’esser bonos mancu a li ligare sas iscarpas, si no haerent in manu totu su podere chi juchen e chi no ischin manch’issos proitte; ca d’onzunu de custos omineddos s’abbinzant chi no est fomine, ma est bia un’ingranaggiu de macchinas semper prus mannas e semper peus. Su chi mi timo meta, però, est chi sient diventatos carognas sos chi sunt restatos in bidda e chi de balenter veros no si ‘nd’acattet prus mancu inie! Chi a forzas de iscolas, de giornales, de televisiones, finamentra sos cumpanzos chi no hant appidu sa dilgrassia de cambiare pilu in zittate si siano venduti, si sien irmenticatos se su ch’ini. 

Custa zente de zittate! Chi no s’imbriacat mai! Chi misurat d’onzi paraula, d’onzi passu, e chi no ridet mai a iscracagliu, e chi cando riet movet e bia sas lavras, tottu a misura; e chi no ischit mancu pranghere cando b’hat de pranghere. Custa zente cheret timita. E a chie mi narat chi in bidda, pro una bria, b’hat zente chi si iocat a istoccatas, io rispondo che tutta quanta la gente in città la uccidono molto di più a colpi di penna, di emendamenti, di leggi, e prus e prusu de indifferenzia.

Custa zente de zittate! Chi istat dechinas e dechinas de annos chene si piccare un’imbreachera, cheret timita! Ca er zente morta! Chin su samben frittu che colovra.

Custa zente de zittate! Tottu chin s’arva hata, onzi die tottu lavata e bene estita, che mortu in baule, ieo la ido chi er zente morta. E mi naro su chi naraiat Achille a Ulisse cando si sunt abbovatos in sa idda ‘e sos mortos: chi er mezzus a esser zeraccu de unu zeraccu in mesu a sos vios, chi no a cumandare tottu sas trumas de sos mortos! E mi penso chi tottu sa pelea chi si picat custa zente morta de zittate, pro ider su lumen suo ei sa fotografia in giornale e in libros, o pro essire in televisione e pro abochinare lanas in sa radio, e in su telefono, e in iscolas, e in cunferenzias, e cussizzos, e uffizios, tottu custa mattana ‘e cuntierra appat unu mottivu ebbia: chi lu acan pro creder chi no sunu ispiritos e mancu animas degugliatas ma abberu pessones vias.

Ieo, cando ido sos lumenes e sas caras issoro, istampatas in sos giornales, o intenno sar voches issoro in sa radio, e mi los abbaito in televisione, ido chi sunu puppas, apparenzias vanas; ma issos inveze pessan: “Cussu so ieo e cheret narrer chi so viu, chi giuco una cara, e faeddo e appo unu lumene”. 

Est tottu un ingannu. Una tropea chi si sunt postos issos mattesi. Ma est unu contu longu. Ma si che ocamus tottu sa lana chi c’hat ammuntonatu supra seculos e seculos de ‘aulas, di bugie, si potet incurziare e ribuluziare.

 

Cagliari, Edizioni della Torre, 1983
Sos sinnos
Michelangelo Pira
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Non saprei aggiungere altro. Dopo che leggo queste parole, le leggo a voce alta, mi meraviglio sempre per i brividi che, anche in giornate afose, riesce a provocarmi questa voce profonda di Michelangelo Pira. E allora in queste parole trovo le risposte a quanto si domandava Roberto, sul senso dell’avulsione dalla morte che gli abitanti di quei luoghi fuori dal mondo tentano di conquistare, e qua torna in aiuto Mialinu, e mi piace riprendere una sua frase: “E mi penso chi tottu sa pelea chi si picat custa zente morta de zittate, tottu custa mattana ‘e cuntierra appat unu mottivu ebbia: chi lu acan pro creder chi no sunu ispiritos e mancu animas degugliatas ma abberu pessones vias”.

Silenzio.