Rodolfo Siviero, agente segreto e storico d’arte

Rodolfo Siviero (Guardistallo, 24 dicembre 1911 – Firenze, 26 ottobre 1983) è stato un agente segreto, storico dell'arte e intellettuale italiano, noto soprattutto per la sua importante attività di recupero delle opere d'arte trafugate dall'Italia nel corso della seconda guerra mondiale.
Rodolfo Siviero (1911 – 1983), agente segreto, storico dell’arte e intellettuale italiano.

Nel 1983 moriva Rodolfo Siviero, nome che forse ai più dirà ben poco, ma che fa in realtà parte di tutto quel sottobosco di funzionari statali che da sempre hanno caratterizzato la politica interna ed estera, quella meno appariscente e meno incravattata, di ogni Paese civile.

Nonostante questo, Rodolfo Siviero era noto per l’acuta insofferenza per le trafile burocratiche e per l’idiosincrasia verso la cecità della mediocre classe politica italiana in materia di beni culturali (da allora non è cambiato niente, anzi). Da giovanissimo Rodolfo Siviero confida nell’efficacia riformatrice e nella carica rivoluzionaria del fascismo lasciandosi prendere talvolta dalla retorica dannunziana; entra così a far parte del Servizio Informazioni Militari, chiamato dal generale Alberto Pariani a far parte del gruppo che si occupa di covert operations, le operazioni segrete sotto copertura. Fra i suoi primi incarichi c’è quello di ottenere informazioni sull’intenzione della Germania di annettere l’Austria. Ma le cose non vanno per il verso giusto e nel 1938 Siviero è espulso dalla Germania come «persona non gradita». Dal 1940 prende contatto con ambienti antifascisti e, come si legge nei suoi diari, organizza «il sabotaggio di acquisti illegali di opere d’arte in atto da parte di Hitler e Göring a Firenze e in altre città».

Il generale Eisenhowe ispeziona la refurtiva di tesori d’arte rubati dai nazisti e nascosti in una miniera di sale in Germania.

E come in ogni teatro di guerra che si rispetti non poteva mancare l’apporto degli USA: dal 1943 al 1951 un gruppo di soldati, soprannominati Monuments-Men (gli statunitensi non perdono mai l’occasione per essere ridicoli) prestò servizio nella MFAA (Monuments, Fine Arts, and Archives) e il cui compito, su mandato del Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, era quello di andare in Germania, salvare le opere d’arte rubate dai tedeschi e restituirle ai legittimi proprietari.

Le storie del nostro Siviero e dei Monuments-Men si intrecciano.
L’ufficio recuperi di Siviero nasce ufficialmente il 16 maggio 1945, anche se de facto esisteva da molto prima. Al suo esordio la disponibilità delle istituzioni nei confronti di Siviero è massima. L’uomo è descritto come persona «che possiede particolari competenze in materia e nel quale questa direzione generale crede di poter disporre piena e assoluta fiducia». Si avvisano i CS (centri di controspionaggio) e il vicecapo del Comando alleato, capitano Reginald Stenophe Wright, che a Siviero è stato affidato l’incarico di ricerca e recupero del materiale artistico trafugato. Siviero è autorizzato a interventi di polizia giudiziaria e «ha competenza nel sequestro di materiale artistico del patrimonio nazionale da chiunque illecitamente detenuto».

Rodolfo Siviero a Roma, a Palazzo Venezia nel 1951, davanti a un dipinto della scuola di Fontainbleau del tardo Cinquecento recuperato nel corso di una delle sue operazioni “segrete”. L’opera era stata venduta a Göring che aveva una predilezione per i dipinti con fanciulle nude. Siviero recupera l’opera nel novembre del 1948. Per gentile concessione dell’Accademia delle Arti e del Disegno, Firenze
Rodolfo Siviero a Roma, a Palazzo Venezia nel 1951, posa davanti a un dipinto recuperato.

La collaborazione della burocrazia italiana però non dura molto. Di lì a poco gli storici dell’arte (con Carlo Ludovico Ragghianti in testa) non perdonano a Siviero di fare il poliziotto, le forze dell’ordine di farlo al posto loro.
Agli occhi degli americani, commenta Francesca Bottari, storica dell’arte che ha scritto un libro dal titolo “Rodolfo Siviero, Avventure e recuperi del più grande agente segreto dell’arte” (Editore Castelvecchi), questo rimbalzo di competenze e di primati deve essere sembrata una stravaganza tutta italiana. Tanto che l’ammiraglio Ellery W. Stone, alto commissario americano in Italia scrive al Presidente del consiglio Ferruccio Parri e, per conoscenza al suo ambasciatore e a quello britannico, formulando una lusinghiera difesa dell’attività del nucleo di Siviero e descrivendone l’attiva collaborazione con gli alleati. Annota Francesca Bottari: «La necessità di ricorrere a informazioni riservate e militari per le indagini non può che destare sospetti e indispettire le istituzioni di studiosi, agli occhi dei quali il patrimonio artistico pare ridotto a un bottino qualunque da ritrovare. Questo causa uno spiacevole rimbalzo di competenze e genera la riprovazione delle istituzioni straniere per la lentezza della burocrazia italiana».

Foto del 24 aprile 1945: un soldato americano della Terza Armata, sovrastato da una montagna di oggetti d’arte rubati dai nazisti e stoccati in una chiesa a Ellingen, in Germania. Courtesy The National Archives
Foto del 24 aprile 1945: un soldato americano della Terza Armata, sovrastato da una montagna di oggetti d’arte rubati dai nazisti e stoccati in una chiesa a Ellingen, in Germania. Courtesy The National Archives

Col passare del tempo, gli italiani fanno di tutto per ostacolare Siviero. Il ministro Gonella si rifiuta persino di firmare i rimborsi delle spese sostenute da Siviero, di tasca sua, nel corso delle missioni. Addirittura, negli ingranaggi dei vari ministeri, c’è persino chi si oppone al rientro delle opere d’arte, tanto per fare un dispetto a Siviero, che annota nel suo diario la «ritirata dello Stato davanti ai ladri». In pratica, dalla fine degli anni Cinquanta, nonostante un lavoro eccellente, Siviero è come un cane sciolto; nel suo ufficio di Palazzo Venezia può contare su pochi collaboratori, quasi solo carabinieri che la burocrazia cerca di ridurgli di numero, e una rete di informatori. Ma a dispetto dei denigratori lui non cambia: i suoi metodi di lavoro e di indagine sono sempre i soliti: «da solo organizza e coordina i recuperi con l’aiuto dei suoi personali informatori, delle polizie e diplomazie internazionali, tratta personalmente i casi e patteggia, scambia, si apposta, forse minaccia o ricatta, come si ricostruisce da alcuni casi di recupero». Ma il successo gli arride quasi sempre.

Sei autocarri militari americani arrivano a Firenze, in una festante Piazza della Signoria, con parte delle opere d’arte rubate dai nazisti e destinate alle collezioni private di Hitler e Goering, nascoste a Bolzano. È il 21 luglio 1945. Courtesy The National Archives
Sei autocarri militari americani arrivano a Firenze, in una festante Piazza della Signoria, con parte delle opere d’arte rubate dai nazisti e destinate alle collezioni private di Hitler e Goering, nascoste a Bolzano. È il 21 luglio 1945. Courtesy The National Archives

Negli ultimi anni della sua vita Siviero riceverà un altro brutto colpo: il 25 maggio 1982 i carabinieri gli comunicano un avviso di reato per «esportazione abusiva di opere d’arte e usurpazione di pubbliche funzioni».
Niente meglio delle parole annotate nel suo diario, riassumono la reazione e la sensazione di tradimento che devono aver colto un uomo come Siviero:

«Avere carattere per i cialtroni che ci governano vuol dire avere un brutto carattere. Il nostro mondo è una fogna di lumaconi senza guscio, d’invertrebrati e di imbecilli».

Alla sua morte, il 26 ottobre 1983, Siviero porta con sé molti segreti. La delegazione italiana per le restituzioni è sciolta nel 1987 e le opere italiane mancanti sono ancora migliaia.

Scriverà il giornalista Fabrizio Dentice:

«Era un uomo del Rinascimento. L’uomo del Rinascimento non era perfetto, ma era intero, nel bene e nel male, e Siviero era proprio questo (…). Il nemico alle spalle era nei Ministeri e negli anditi del Palazzo: la burocrazia pavida, servile, incerta, corriva e complice, per snobismo e opportunismi, di interessi che Siviero mortificava nell’interesse dello Stato».

«L’opera d’arte non ha proprietari: appartiene all’umanità e parla l’idioma di chi l’ha creata e l’ha amorevolmente vegliata di generazione in generazione. Ovunque si trovino, dunque, i capolaori dell’arte italiana narrano la storia e la passione della nostra gente. Pari al suono squillante delle campane rubate dai nazisti ai nostri campanili e per sempre rese da Siviero all’Italia, esse lanciano al mondo – alto e schietto – il messaggio della nostra cultura e della nostra umanità». Sandro Pertini

Scalfari e la sua dannatissima presunzione (terza puntata)

Ormai abituati all’omelia domenicale di Eugenio Scalfari, mi sono preoccupato anche stamani, prima di andare a Messa, di leggere le parole del fondatore di Repubblica. Nell’editoriale di oggi il buon Eugenio fa un elenco di tutte le cose che gli interessano e che “spero interessino anche i lettori di questo giornale”… Nella sua personalissima classifica arrivano personaggi come Napolitano, Angela Merkel, Barack Obama e altri: ma al primo posto? Ovviamente Papa Francesco! I protestanti amano definire i cattolici in tono spregiativo “papisti”… Non mi pare che ci sia nessun aggettivo più appropriato di questo per definire Eugenio Scalfari. 

Ma veniamo alla sostanza delle parole di oggi di Scalfari:
Continua la serie di strafalcioni del fondatore di Repubblica. Addirittura ha ricollocato l’incontro del Santo Padre con l’Unione dei Superiori Generali del 29 novembre scorso a Santa Maria Maggiore, dimenticando di verificare le sue inattendibili fonti. E non serviva certo telefonare al Palazzo Apostolico per sapere che Papa Francesco avrebbe incontrato la USG nella Nuova Aula del Sinodo in Vaticano: qui la nota ufficiale della sala stampa vaticana. 

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Continua poi dando risalto alle critiche che gli sono state rivolte dopo il titolo sensazionale di domenica scorsa. Lo ricordate? 

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Difficile da dimenticare, vero? Oggi invece Scalfari dice di essere stato frainteso (anche questo mi ricorda qualcuno…), di non aver mai detto che Papa Francesco possa aver abolito il peccato. Ed è un guaio il fatto che se anche non lo pensava, chi ha impaginato il suo articolo, chi l’ha revisionato, gli abbia tirato un colpo mancino, perché il titolo dice esattamente quello. E’ pur vero che all’interno delle sue parole troviamo un’argomentazione abbastanza articolata sul confronto tra il Dio veterotestamentario e quello del NT, ma la sostanza è quella di un cambio di prospettiva nei confronti del giudizio della colpa. 

Una riflessione è d’obbligo farla: l’insondabilità dell’azione divina è una cosa assodata da secoli, da quando l’uomo ha iniziato a porsi i primi problemi teologici ha subito capito che il pensiero di Dio sarà imperscrutabile. Cristo è venuto sulla terra per occuparsi delle cose del Padre (Lc 2, 49); a lui solo è dato conoscere il pensiero divino. Ora che si possa pensare che il Papa possa de facto abolire il peccato, è davvero comico e tragico allo stesso momento. Ricordo benissimo le parole che papa Francesco disse in quell’incontro a Santa Marta con Scalfari: parlò della coscienza dell’uomo, cristiano e non, come importante discrimine per discernere Bene e Male. Questo non vuol dire che il Dio dei cristiani è in realtà la Coscienza dell’uomo. Questo vuol dire che è insita nell’uomo la consapevolezza della differenza tra Bene e Male che Dio ha iniziato a insegnarci dai tempi di Santa Madre Eva! La Mela era il simbolo di questa pulsione umana, di questa grande separazione del cosmo tra le due realtà in cui tutto si riassume. 

Vi invito a leggere l’editoriale di Scalfari (dovrò farmi rifondere per tutta questa pubblicità!), e a riflettere se è accettabile da un giornalista autorevole come è (era) Scalfari che un giorno dica una cosa e il giorno dopo la smentisca. 

Verba volant, caro Scalfari. Scripta manent!

Piccolo poscritto: ho allegato il link della prima puntata di questa mia critica a Scalfari in un commento posto sotto l’editoriale di domenica scorsa su Repubblica.it, ma ovviamente la redazione si è ben guardata dal farlo comparire tra i commenti. Questa gente sa cosa vuol dire la parola “res-pubblica“? Speriamo usino almeno wikipedia! Anche se la Treccani.it è meglio!

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Mont’e Prama. Epilogo di una farsa che dura da 40 anni.

Per chi non conosce la storia dei Giganti di Mont’e Prama descriverò brevemente:

Nel marzo del 1974 a un agricoltore intento a lavorare un terreno in località Mont’e Prama, a Cabras, Sardegna centro-occidentale, capitò una di quelle cose che non troppo raramente capitano a chiunque con un trattore si trovi ad arare il terreno della Sardegna: rinvenne infatti dei reperti archeologici. Il fattore che rende unico e importantissimo il ritrovamento è la sua entità: si trattava infatti di statue scolpite in pietra arenaria locale e la loro altezza variava tra i 2 e i 2,5 metri. Dopo quattro campagne di scavo effettuate fra il 1975 e il 1979, i circa cinquemila frammenti rinvenuti – tra i quali quindici teste e ventidue busti – vennero custoditi nei magazzini del Museo archeologico nazionale di Cagliari per trent’anni, mentre alcune tra le parti più importanti vennero esposte nello stesso museo. Insieme a statue e modelli di nuraghe furono ritrovati anche diversi betili del tipo “oragiana”, in genere pertinenti a una o più tombe dei giganti.

Questi esempi di statuaria sono di stile e di datazione dibattuta: secondo M. Rendeli il loro stile è un unicum; di stile geometrico secondo Lilliu; orientalizzante secondo Carlo Tronchetti. La datazione invece si colloca tra l’XI secolo e l’VIII secolo a.C., ma questo dato non è meno dibattuto di quello dello stile.

La cronaca ha dimenticato fino a qualche anno fa questi reperti straordinari, almeno fino al 2005, quando con uno stanziamento di fondi del MiBAaCc e della Regione Sardegna, è stato possibile intraprendere una campagna di restauro, dal 2007 al 2012. 

Saltando tutte le vicissitudini che questi reperti hanno subìto, ora si è giunti al momento fatidico di mettere in esecuzione un ordine del Ministero, allora guidato da Sandro Bondi: le statue verranno divise! Una parte andrà al Museo di Cagliari e l’altra tornerà a Cabras.

Non ci vuole un grande archeologo ne un grande museologo per capire l’immensa stupidaggine che si commette a dividere ciò che fu pensato e realizzato per rimanere unito. Cosa succederebbe se si dividessero i Bronzi di Riace? O se si pensasse di smembrare ogni paliotto, ogni trittico d’altare e spargere le componenti in diversi musei? In quei casi si griderebbe allo scandalo e ci sarebbe una levata di scudi terribile. 

Per i Giganti di Mont’e Prama invece si utilizza un altro (s)criterio. 

Isabella d’Este nel suo testamento dava serratissime indicazioni acciocché il suo importante patrimonio artistico rimanesse saldamente vincolato in un unica collezione, e mai fosse possibile smembrarla. Altri ancora scrissero norme testamentarie simili, e ben si curarono di vincolare in maniera indissolubile oltre che i singoli oggetti, specialmente la loro totalità, la quale esprimeva il carattere e il prestigio del collezionista che tale raccolta aveva assemblato. Ci volle infine Napoleone e le sue rapine legalizzate per vedere chiese spoliate di ogni suppellettile, palazzi patrizi svuotati di ogni opera d’arte, tutto destinato al museo più famoso e più criminale del mondo: il Louvre. Dopo le rapine napoleoniche i papi si attivarono per produrre una legislazione ben definita onde contenere le perdite e con il chirografo di Carlo Fea del 1802 si avviava la vera battaglia per la tutela delle belle arti. 

Il contesto: Quatremere de Quincy, teorico dell’architettura, politico,filosofo, archeologo e critico d’arte francese, si scagliò contro la politica sulle opere d’arte di Napoleone, e rivendicò la profonda natura storica dell’opera d’arte che acquista un valore e una dimensione universale, agendo come principale strumento di istruzione pubblica, in virtù del suo intimo rapporto con la cultura che l’ha prodotta. Le decontestualizzazioni, spezzando l’indissolubile legame tra il reperto e la sua entità storico-geografica, diminuiscono la sua fruibilità, impoveriscono la comunità e distruggono irrimediabilmente le suggestioni, le corrispondenze mentali e le capacità associative che costituiscono la componente essenziale del godimento e del piace estetico.

Oggi, ancora, assistiamo a una nuova interpretazione del concetto di musealizzazione. Si ritiene coerente con la politica di conservazione attuale una azione vergognosa come quella di dividere i Giganti di Mont’e Prama.

Questa è la polemica che ho voluto sollevare. Le autorevoli opinioni sono state espresse nei mezzi di informazione e spero che ancora tanti altri vorranno esprimersi contro questo delitto.

 

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Cristiani contro giudei. La dottrina di Agostino.

La questione di fondo su cui ritornavano continuamente teologi e predicatori cristiani era rappresentata dalla sorte spettante al popolo, cui si attribuiva la responsabilità della morte di Gesù: crimine eccezionalmente grave, poiché si trattava non di semplice omicidio, ma di deicidio, aggravato dall’ostinazione nel non riconoscere Gesù come Messia e Signore.

In Occidente la linea fu fissata da Agostino. Un celebre passo del De civitate Dei (XVIII,46 riportato qua di seguito) afferma che i giudei sono deicidi e che per tale colpa sono stati giustamente puniti da Dio con la fine del loro regno. Nonostante ciò, per Agostino vanno preservati come testimoni inconsapevoli della verità del cristianesimo. Se non ci fossero loro, infatti, qualcuno potrebbe pensare che i passi biblici riguardanti la venuta del Messia siano stati prodotti dai cristiani per convalidare a posteriori la messianicità di Gesù. Mentre consacra l’accusa di deicidio nei loro confronti, Agostino offre una ragione a favore della loro preservazione: senza saperlo, essi sono paradossalmente divenuti utili apologeti della verità cristiana. Tale concezione dà ragione delle rappresentazioni medievali della Sinagoga, scolpita su portali di chiese e cattedrali e riprodotta in numerose miniature nella figura di una donna bendata, in contrapposizione alla Chiesa vedete: la Sinagoga è portatrice di un mistero che tramanda senza riconoscerlo. In questa prospettiva i giudei perdono la propria effettiva consistenza storica, per acquistarne una esclusivamente ermeneutica e teologica entro l’apologetica cristiana e in vista di essa.

tratto dal De civitate Dei, Agostino d’Ippona

LA DIASPORA EBRAICA E LA CHIESA

46. Mentre in Giudea era re Erode e a Roma, in seguito al cambiamento della forma di Stato, era imperatore Cesare Augusto e mentre, grazie a lui, il mondo era in pace, nacque il Cristo, secondo la predizione profetica in Betlem di Giudea 190, visibilmente uomo da una creatura umana vergine, invisibilmente Dio da Dio Padre. Aveva infatti predetto il Profeta: Ecco una vergine concepirà e partorirà un figlio e lo chiameranno Emanuele che significa Dio con noi. Egli, per segnalarsi come Dio, ha compiuto molti miracoli. Il Vangelo ne narra alcuni soltanto nei limiti richiesti per segnalarlo all’attenzione. Il primo dei miracoli è la sua nascita prodigiosa, l’ultimo l’ascensione al cielo col suo corpo glorificato. I Giudei, che lo uccisero e non vollero credere che erano ineluttabili la sua morte e risurrezione, sottoposti dai Romani alla strage più desolante, costretti al completo ad emigrare dal regno, in cui dominavano già re stranieri e dispersi per il mondo, giacché non mancano in nessuna parte, mediante i loro libri della Bibbia, ci sono di prova che noi non abbiamo inventato nulla sul Cristo. Molti di loro, esaminandoli attentamente, credettero in lui, anche prima della sua passione e soprattutto dopo la sua risurrezione. Di loro è stato preannunziato: Se il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, solo una parte si libererà. Gli altri divennero ciechi e di essi è stato predetto: Divenga la loro tavola per loro un tranello, una resa dei conti, un inciampo. Si offuschino i loro occhi affinché non vedano, sfibra per sempre i loro fianchi. Quindi sebbene non credono alla nostra Bibbia, si avvera in essi la loro perché la leggono da ciechi. Qualcuno potrebbe dire che i cristiani hanno inventato quelle profezie sul Cristo che si allegano col nome della Sibilla e di altri, se ve ne sono di quelle che non appartengono alla razza dei Giudei. A noi in verità bastano quelle che vengono allegate dal testo dei nostri avversari che riconosciamo per la prova che, sebbene a malincuore, ci offrono ritenendo e conservando il medesimo testo, che anche esso, cioè, è divulgato fra tutti i popoli, per ogni dove si diffonde la Chiesa. Sul fatto è stata fatta precedere una profezia nei Salmi, che anche essi leggono, in questo passo: Mio Dio, la sua bontà mi verrà in aiuto. Il mio Dio me lo ha mostrato nei miei nemici. Non ucciderli, affinché non dimentichino la tua legge, nella tua bontà falli andare in vari luoghi. Dunque Dio ha mostrato alla Chiesa mediante i Giudei, suoi avversari, il favore della sua bontà perché, come dice l’Apostolo, il loro delitto è la salvezza per i pagani. Perciò non li ha uccisi, cioè non li ha fatti scomparire perché sono Giudei, sebbene furono sconfitti e sopraffatti dai Romani affinché non avvenisse che, dimentichi della legge di Dio, non offrissero quella prova, di cui sto parlando. Perciò non bastava dire: Non ucciderli affinché non dimentichino la tua legge, se non aggiungeva: Falli andare in vari luoghi perché se con questa attestazione a favore della Scrittura fossero rimasti soltanto nel proprio paese non ovunque, la Chiesa, che è in ogni parte del mondo, poteva servirsene fra tutti i popoli come testimoni di quelle profezie che sono state preannunziate del Cristo.

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Allegoria della Chiesa e della Sinagoga sulla cattedrale di Strasburgo (XV secolo). A sinistra, la Chiesa trionfante con lo stendardo del Vangelo e il calice dei Sacramenti del Nuovo Testamento. A destra, la Sinagoga con lo stendardo spezzato dell’Antico Testamento e una benda sugli occhi, simbolo della cecità dovuta al rifiuto di Gesù Cristo.